Gabriele D'Annunzio

L'innocente


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parole orano state troppo gravi. Quel «Tu… potresti dimenticare?» pronunziato con quell’accento, dopo la lettura di quei versi, aveva avuto il valore di una conferma definitiva. E quel «Silenzio» di Giuliana era stato come un suggello.

      «Ma» io pensai «questa volta ha ella proprio creduto al mio ravvedimento? Non è ella stata sempre un poco scettica a riguardo dei miei buoni moti?» E rividi quel suo tenue sorriso sfiduciato, già altre volte comparsole su le labbra. «Se ella dentro di sé non avesse creduto, se anche la sua illusione fosse caduta subitamente, allora forse la mia ritirata non avrebbe molta gravità, non la ferirebbe né la sdegnerebbe troppo; e l’episodio rimarrebbe senza conseguenza, e io rimarrei libero come prima. Villalilla rimarrebbe nel suo sogno.» E rividi l’altro sorriso, il sorriso nuovo, impreveduto, credulo, che le era comparso su le labbra al nome di Villalilla. «Che fare? Che risolvere? Come contenermi?» La lettera di Teresa Raffo mi bruciava forte.

      Quando rientrai nella stanza di Giuliana, m’accorsi al primo sguardo che ella mi aspettava. Mi parve lieta, con gli occhi lucidi, con un pallore più animato, più fresco.

      – Tullio, dove sei stato? – mi domandò ridendo.

      Io risposi:

      – Mi ha messo in fuga la signora Tàlice.

      Ella seguitò a ridere, d’un limpido riso giovenile che la trasfigurava. Io le porsi i libri e la scatola delle confetture.

      – Per me? – esclamò, tutta contenta, come una bambina golosa; e si affrettò ad aprire la scatola, con piccoli gesti di grazia, che risollevavano nel mio spirito lembi di ricordi lontani. – Per me?

      Prese un bonbon, fece l’atto di portarlo alla bocca, esitò un poco, lo lasciò ricadere, allontanò la scatola; e disse:

      – Poi, poi…

      – Sai, Tullio, – m’avvertì mia madre – non ha ancóra mangiato nulla. Ha voluto aspettarti.

      – Ah, non t’ho ancóra detto… – proruppe Giuliana, divenuta rosea – non t’ho ancóra detto che c’è stato il dottore, mentre eri fuori. Mi ha trovata molto meglio. Potrò alzarmi giovedì. Capisci, Tullio? Potrò alzarmi giovedì…

      Soggiunse:

      – Fra dieci, fra quindici giorni al piú, potrò anche mettermi in treno.

      Soggiunse, dopo una pausa pensosa, con un tono minore:

      – Villalilla!

      Ella non aveva dunque pensato ad altro, non aveva sognato altro. Ella aveva creduto; credeva. Io duravo fatica a dissimulare la mia angoscia. Mi occupavo, con soverchia premura, forse, dei preparativi pel suo piccolo pranzo. Io medesimo le misi su le ginocchia la tavoletta.

      Ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole che mi faceva male. «Ah, se ella potesse indovinare!» D’un tratto, mia madre esclamò, candidamente:

      – Come sei bella stasera, Giuliana!

      Infatti, un’animazione straordinaria le avvivava le linee del volto, le accendeva gli occhi, la ringiovaniva tutta quanta. All’esclamazione di mia madre, ella arrossì; e un’ombra di quel rossore le rimase per tutta la sera su le gote.

      – Giovedì mi alzerò – ripeteva. – Giovedì, fra tre giorni! Non saprò più camminare…

      Insisteva col discorso su la sua guarigione, su la nostra partenza prossima. Chiese a mia madre alcune notizie su lo stato attuale della villa, sul giardino.

      – Io piantai un ramo di salice vicino alla peschiera, l’ultima volta che ci fummo. Ti ricordi, Tullio? Chi sa se ce lo ritroverò…

      – Sì sì, – interruppe mia madre, raggiante – ce lo ritroverai; è cresciuto; è un albero. Domandalo a Federico.

      – Davvero? Davvero? Dimmi dunque, mamma…

      Pareva che quella piccola particolarità in quel momento avesse per lei un’importanza incalcolabile. Ella divenne loquace. Io mi meravigliavo ch’ella fosse così a dentro nell’illusione, mi meravigliavo ch’ella fosse così trasfigurata dal suo sogno. «Perché, perché questa volta ella ha creduto? Come mai si lascia così trasportare? Chi le dà questa insolita fede?» E il pensiero della mia infamia prossima, forse inevitabile, mi agghiacciava. «Perché inevitabile? Non saprò dunque mai liberarmi? Io debbo, io debbo mantenere la mia promessa. Mia madre è testimone della mia promessa. A qualunque costo, la manterrò.» E con uno sforzo interiore, quasi direi con una scossa della conscienza, io uscii dal tumulto delle incertezze; e mi rivolsi a Giuliana, per un moto dell’anima quasi violento.

      Ella mi piacque ancóra, eccitata com’era, vivace, giovine. Mi rammentava la Giuliana d’un tempo, che tante volte in mezzo alla tranquillità della vita familiare io aveva sollevata d’improvviso su le mie braccia, come preso da una follia repentina, e portata di corsa nell’alcova.

      – No, no, mamma; non mi far più bere – ella pregò, trattenendo mia madre che le versava il vino. – Già ho bevuto troppo, senza accorgermene. Ah questo Chablis! Ti ricordi, Tullio?

      E rise, guardandomi dentro le pupille, nell’evocare il ricordo d’amore su cui ondeggiava il fumo di quel delicato vino amaretto e biondo ch’ella prediligeva.

      – Mi ricordo – io risposi.

      Ella socchiuse le palpebre, con un leggero tremolio dei cigli. Disse poi:

      – Fa caldo qui. È vero? Ho gli orecchi che mi scottano.

      E si strinse la testa fra le palme, per sentire il bruciore. Il lume, che ardeva a lato del letto, rischiarava intensamente la lunga linea del viso; faceva rilucere tra il folto de’ capelli castagni alcuni fili d’oro chiaro, ove l’orecchio piccolo e fine, acceso alla sommità, traspariva.

      A un punto, mentre io aiutavo a sparecchiare (mia madre era uscita, e la cameriera anche, per un momento, e stavano nella stanza attigua), ella chiamò sottovoce:

      – Tullio!

      E, con un gesto furtivo attirandomi, mi baciò su una gota.

      Ora, non doveva ella con quel bacio riprendermi interamente, anima e corpo, per sempre? Quell’atto, in lei così sdegnosa e così fiera, non significava che ella voleva tutto obliare, che aveva già tutto obliato per rivivere con me una vita nuova? Avrebbe potuto ella riabbandonarsi al mio amore con più grazia, con maggior confidenza? La sorella ridiventava l’amante a un tratto. La sorella impeccabile aveva conservato nel sangue, nelle più segrete vene, la memoria delle mie carezze, quella memoria organica delle sensazioni, così viva nella donna e così tenace. Ripensando, quando mi ritrovai solo, ebbi interrottamente alcune visioni di giorni lontani, di sere lontane. «Un crepuscolo di giugno, caldo, tutto roseo, navigato da misteriosi profumi, terribile ai solitarii, a coloro che rimpiangono o che desiderano. Io entro nella stanza. Ella è seduta presso alla finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell’attitudine di chi sia per venir meno. – Giuliana! – Ella si scuote, si risolleva. – Che fai? – Risponde: – Nulla. – E un’alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passa nei suoi occhi troppo neri.» Quante volte, dal giorno della triste rinunzia, ella aveva patito nella sua povera carne quelle torture? Il mio pensiero s’indugiò intorno alle imagini suscitate dal piccolo fatto recente. La singolare eccitazione mostrata da Giuliana mi rammentò certi esempi della sua sensibilità fisica straordinariamente acuta. La malattia, forse, aveva aumentata, esasperata quella sensibilità. Ed io pensai, curioso e perverso, che avrei veduto la debole vita della convalescente ardere e struggersi sotto la mia carezza; e pensai che la voluttà avrebbe avuto quasi un sapore di incesto. «Se ella ne morisse?» pensai. Certe parole del chirurgo mi tornavano alla memoria, sinistre. E, per quella crudeltà che è in fondo a tutti gli uomini sensuali, il pericolo non mi spaventò ma mi attrasse. Io m›indugiai ad esaminare il mio sentimento con quella specie di amara compiacenza, mista di disgusto, che portavo nell›analisi di tutte le manifestazioni interiori le quali mi paressero fornire una prova della malvagità fondamentale umana. «Perché l›uomo ha nella sua natura questa orribile facoltà di godere con maggiore acutezza quando è consapevole di nuocere alla creatura da cui prende