Iginio Ugo Tarchetti

Racconti fantastici


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      Iginio Ugo Tarchetti

      RACCONTI FANTASTICI

      I FATALI

      Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un’influenza sinistra sugli uomini e sulle cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimonii ogni giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva, avvezza a non accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna sempre di ammettere.

      Se noi esaminiamo attentamente tutte le opere nostre, anche le più comuni e le più inconcludenti, vedremo nondimeno non esservene una da cui questa credenza ci abbia distolti, o a compiere la quale non ci abbia in qualche maniera eccitati. Questa superstizione entra in tutti i fatti della nostra vita.

      Molti credono schermirsene asserendo per l’appunto non esser ella che una superstizione, e non s’avvedono che fanno così una semplice questione di parole. Ciò non toglierebbe valore a questa credenza, poichè anche la superstizione è una fede.

      Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quanto nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per certe leggi d’influenze di cui non abbiamo ancora potuto indovinare intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e inscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo tutte queste influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l’una sull’altra, riunire in un solo centro di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo della materia.

      Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci sono quasi tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e dinanzi ai rapporti che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più, e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato. Poichè nell’ordine dei fatti noi possiamo ammettere delle tesi generali, delle verità complesse; non nell’ordine delle idee.

      Dove i fatti sono incerti, le idee sono confuse. Avvengono fatti che non presentano un carattere deciso, sensibile, ben definito, e che la nostra ragione calcolatrice non sa se negare od ammettere. Vi sono perciò idee incomplete, oscure, fluttuanti, che non possono presentarsi mai sotto un aspetto chiaro, e che non sappiamo se accettare o respingere. Questa incertezza di fatti, questa incompletazione di idee, questo stato di mezzo tra una fede ferma e una fede titubante, costituiscono forse ciò che noi chiamiamo superstizione – il punto di partenza di tutte le grandi verità. Perchè la superstizione è l’embrione, è il primo concetto di tutte le grandi credenze.

      Qualora io vedo una superstizione impadronirsi dell’anima delle masse, io dico che in fondo ad essa vi è una verità, poichè noi non abbiamo idee senza fatti, e questa superstizione non può essere partita che da un fatto. Se esso non si è ancora rinnovato e generalizzato per confermarla, egli è che la via dell’umanità è lunga – più lunga quelle delle cose – e nessuno può determinare il tempo e le circostanze in cui potrà ripetersi. Gli uomini hanno adottato un sistema facile e logico in fatto di convenzioni; ammettono ciò che vedono, negano ciò che non vedono; ma questo sistema non ha impedito finora che essi abbiano dovuto ammettere più tardi non poche verità che avevano prima negate. La scienza e il progresso ne fanno fede. Del resto, comunque sia, per ciò che è fede nelle influenze buone e sinistre che uomini e cose possono esercitare sopra di noi, non v’è uomo che non ne abbia una più o meno salda, più o meno illuminata, più o meno confermata dall’esperienza della vita. Tutto al più si tratterebbe di riconoscere se essa abbia o no ragione di essere, e fino a qual punto debba venire accettata, non di negarla – poichè l’esistenza di questa fede è indiscutibile.

      Io ne trovo dovunque delle prove. Per me l’antipatia non è che una tacita coscienza dell’influenza fatale che una persona può esercitare sopra di noi. Nelle masse ignoranti questa coscienza ha creato la jettatura, nelle masse colte la prevenzione, le diffidenza, il sospetto.

      Non v’è cosa più comune che udire esclamare: «quell’uomo non mi piace – non vorrei incontrarmi per via con quella persona – mi fa paura – d’innanzi a lui io non sono più nulla – ogni qualvolta mi sono imbattuto in quell’uomo mi è accaduta una sventura.» Nè questa fede che si presenta sotto tanti aspetti, che quasi non avvertiamo, che è pressochè innata con noi come tutti gli istinti di difesa che ci ha dato la natura, è sentita esclusivamente da pochi uomini – essa è, in maggiori o minori proporzioni, un retaggio naturale di tutti.

      Questa superstizione accompagna l’umanità fino dalla sua infanzia, è diffusa da tutti i popoli. Gli uomini di genio, quelli che hanno molto sofferto, vi hanno posto maggior fede degli altri. Il numero di coloro che credettero essere perseguitati da un essere fatale è infinito: lo è del paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi stessi, Hoffman, buono ed affettuoso, fu torturato tutta la vita da questo pensiero.

      Non giova dilungarsi su ciò, perchè la storia è piena di questi esempi, e ciascuno di noi può trovare nella sua vita intima le prove di questa credenza quasi istintiva.

      Io non voglio dimostrarne nè l’assurdo nè la verità. Credo che nessuno lo possa fare con argomenti autorevoli. Mi limito a raccontare fatti che hanno rapporto con questa superstizione.

* * *

      Nel carnevale del 1866 io mi trovava a Milano. Era la sera del giovedì grasso, e il corso delle maschere era animatissimo. Devo però fare una distinzione – animatissimo di spettatori, non di maschere. Chè se la taccia di fama usurpata, così frequente, e spesso così giusta in arte, potesse applicarsi anche alle feste popolari, il carnevale di Milano ne avrebbe indubbiamente la sua parte. Queste feste non sono più che una mistificazione, ed hanno ragione di esserlo, giacchè le migliaja di forastieri che vengono annualmente ad assistervi non sono però meno convinti di divertirsi. Tutto stava nell’istillar loro la persuazione che il carnevale di Milano fosse la cosa più comica, più spiritosa, più divertente di questo mondo. Una volta infuso questo convincimento, non erano più necessari i fatti per confermarlo – lo scopo di divertire era ottenuto.

      Comunque fosse, il Carnevale del 1866 non era meno animato degli altri, e nelle prime ore della sera del giovedì grasso, la popolazione si era versata sulle strade a torrenti. La folla aveva talmente stipate le vie che in alcuni punti era impossibile muoversi e presso la crociera della via di S. Paolo, ove mi trovava io, si era letteralmente pigiati.

      Gli onesti milanesi si frammischiavano fraternamente ai forestieri, e si inebbriavano del piacere di guardarsi l’un l’altro nel bianco degli occhi – ciò che costituisce l’unico, ma ineffabile divertimento di questo celebre Carnevale.

      Non so da quanto tempo io mi trovassi colà, in piedi, in mezzo a quella gran ressa, in una posizione incomodissima, allorchè voltandomi per vedere se v’era mezzo di uscirne, osservai intorno a me uno spettacolo assai curioso.

      La folla non si era diradata, ma si era ristretta in modo da lasciare in mezzo a sè uno spazio circolare abbastanza vasto. Nel centro di questo circolo miracoloso v’era un giovinetto che non mostrava aver più di diciotto anni, ma cui, a guardarlo bene, se ne sarebbero dati venticinque, tanto il suo volto appariva patito, e tante erano le traccie che v’erano impresse d’una esistenza travagliata e più lunga. Era biondo e bellissimo, eccessivamente magro, ma non tanto che la bellezza dei lineamenti ne fosse alterata; aveva gli occhi grandi ed azzurri, il labbro inferiore un po’ sporgente, ma con espressione di tristezza più che di rancore; tutta la sua persona aveva qualche cosa di femminile, di delicato, di ineffabilmente grazioso, qualche cosa di ciò che i francesi dicono souple, e che io non saprei esprimere meglio con altra parola della nostra lingua. La purezza e l’armonia delle sue linee erano meravigliose; egli vestiva con estrema eleganza; e guardava quà e là, un poco alla folla e un poco alle maschere, con aria malinconica e divagata come se si trovasse in quel luogo a suo dispetto, e fosse più occupato di sè che dello spettacolo poco allettante che aveva d’innanzi allo sguardo.

      Ma ciò che mi era parso rimarchevole era che egli sembrava non essersi avveduto di quel circolo che s’era formato d’intorno a lui, nè alcuni di quelli stessi che lo avevano formato mostravano di averci posto mente. Non era nulla in ciò di veramente straordinario; pure l’esistenza di uno spazio così vasto in mezzo ad una folla così fitta, in mezzo ad una moltitudine che si moveva, fremeva,