che filtrava dalle persiane e gli scaldava il viso. Si mise a sedere e allungò le braccia per stiracchiarsi. Ma c'era qualcosa che non andava; quella camera da letto era più grande di quanto avrebbe dovuto essere, ma familiare. Non c'era una sola scrivania di fronte a lui, ma due, di cui una più bassa e sormontata da uno specchio.
Non si trovava nel suo appartamento a Bethesda. Si trovava nella sua camera da letto a New York, la loro camera da letto, nella casa in cui vivevano insieme. Prima… prima che accadesse tutto.
E quando girò lentamente la testa vide, sbalordito, che lei era lì. Sdraiata accanto a lui, con la trapunta tirata fino a metà busto, che dormiva pacificamente in una canottiera bianca, come faceva spesso. I suoi capelli biondi erano perfettamente disposti sul cuscino; c'era un leggero sorriso sulle sue labbra. Sembrava un angelo. Spensierata. Tranquilla.
Lui sorrise e si adagiò di nuovo sul cuscino mentre la guardava dormire. Osservando le sue guance perfette e la leggera fossetta sul mento che Sara aveva ereditato. Sua moglie, la madre dei suoi figli, il più grande amore della sua vita.
Sapeva che non era vero, ma desiderava che lo fosse, che quel momento potesse continuare all'infinito. Le toccò delicatamente la spalla, facendo scorrere le punte delle dita lungo la sua pelle liscia, fino al gomito…
Poi si accigliò.
La sua pelle era fredda. Non respirava.
Non stava dormendo. Era morta.
Uccisa da una dose letale di tetrodotossina, somministrata da un uomo che Zero aveva chiamato amico, un uomo a cui Zero aveva risparmiato la vita. Una decisione di cui si pentiva ogni giorno.
“Svegliati”, mormorò. “Per favore. Alzati”.
Non lo fece. Non si sarebbe svegliata mai più.
“Per favore, svegliati”. Ripeté, con voce rotta.
Se era morta, era colpa sua.
“Svegliati”.
È stata colpa sua se era stata assassinata.
“Sveglia!”
Zero fece un respiro mentre si metteva seduto sul letto. Era un sogno; era nella sua camera da letto a Bethesda, dalle pareti bianche e spoglie, con una sola scrivania. Non sapeva se avesse realmente urlato, ma aveva la gola secca e un forte mal di testa.
Gemette e guardò l'ora sul telefono mentre tornava alla realtà. Il sole era alto; era il giorno del Ringraziamento. Doveva alzarsi dal letto. Doveva mettere il tacchino nel forno. Non poteva soffermarsi su un incubo, perché ciò avrebbe significato soffermarsi sul passato e soffermarsi su…
Su…
“Oh mio Dio”, mormorò sottovoce. Le sue mani tremarono e gli si strinse lo stomaco.
Il suo nome. Non riusciva a ricordarlo.
Per un lungo momento rimase seduto in quel modo fissando il copriletto come se la risposta fosse scritta lì. Ma non era lì, e non sembrava nemmeno essere nella sua testa. Non riusciva a ricordare il suo nome.
Zero si strappò le coperte di dosso e praticamente si lasciò cadere dal letto. Allungò una mano sotto il letto, e tirò fuori una cassetta di sicurezza ignifuga grande quanto una valigetta.
“La chiave”, disse ad alta voce. “Dov'è la chiave, maledizione?” Si rialzò di nuovo in piedi e spalancò il cassetto più alto del comò, quasi estraendolo dalle guide. Afferrò la piccola chiave d'argento che giaceva lì, tra i calzini e le cinture arrotolate, e si lasciò cadere di nuovo a terra mentre apriva la cassetta di sicurezza.
All'interno c'erano vari documenti e oggetti importanti, tra cui il passaporto per lui e per le ragazze, il suo certificato di nascita e la tessera di previdenza sociale, due pistole, un migliaio di dollari in contanti e il suo anello nuziale. Tirò fuori tutto e fece una piccola pila sul pavimento, perché nessuno di questi oggetti era quello che stava cercando. Si fermò brevemente su una foto, una foto di loro quattro a San Francisco un'estate, quando Maya aveva cinque anni e Sara tre. Ricordava perfettamente la donna nella foto; nella sua testa risuonava la sua risata allegra, sentiva il suo respiro sull'orecchio, il tocco caldo della sua mano nella sua.
“Qual è il suo nome, maledizione?!” La sua voce tremò mentre gettava da parte la foto e continuava a scavare. Doveva essere lì. Molte delle sue cose erano ancora nel seminterrato di Maria, ma era certo di averlo messo nella cassetta di sicurezza…
“Grazie a Dio!” Riconobbe la busta e la aprì rapidamente. All'interno c'era un solo foglio, stampato su cartoncino spesso con il timbro di una corte di New York. Il loro certificato di matrimonio.
La sua gola si asciugò mentre fissava il nome. “Katherine”, si disse. “Si chiamava Katherine”. Ma non si sentì sollevato; quello che provò fu soltanto terrore. Il nome non gli suonava familiare, non riportava in lui alcun ricordo. Era come una parola nuova sulla sua bocca. “Katherine”, disse di nuovo. Katherine Lawson”.
Non gli suonava bene, anche se quel nome era stampato proprio lì davanti ai suoi occhi in nero su bianco. Si chiamava Katherine? Lui la chiamava Katherine? O forse era…
Kate.
Zero fece un enorme sospiro di sollievo. Kate. La chiamava Kate. I ricordi ritornarono tutti insieme all'improvviso come un rubinetto che si apriva. Ora finalmente provava sollievo, seppur accompagnato dalla consapevolezza che per quei pochi minuti strazianti, aveva completamente dimenticato il nome di sua moglie e non era qualcosa che potesse giustificare come un lapsus momentaneo.
Zero afferrò il suo cellulare e cercò tra i suoi contatti. Aveva bisogno di risposte. L'orario in Svizzera era indietro di sei ore rispetto a lì. Probabilmente era il primo pomeriggio, forse il loro ufficio era già aperto.
“Rispondi”, supplicò Zero. “Rispondi, rispondi…”
“Pronto, qui è l'ufficio del dottor Guyer”. La voce femminile che rispose alla chiamata era sommessa, tinta di un accento svizzero-tedesco. L'avrebbe trovata sensuale se non fosse stato preso dal panico.
“Alina?” chiese rapidamente. “Devo parlare con il dottor Guyer, è molto importante…”
“Mi scusi”, disse, “posso chiedere chi parla?”
Giusto. “Sono Reid. Voglio dire, Kent. Kent Steele. Zero”.
“Ah, Agente Steele”, disse lei allegramente. “Che bello sentirla”.
“Alina, è urgente”.
“Certo”. Immediatamente tornò seria. “Lo chiamo, attenda un momento”.
Il dottor Guyer era un geniale neurologo svizzero, probabilmente tra i migliori al mondo, ed era anche l'uomo che aveva installato il soppressore della memoria delle dimensioni di un chicco di riso nella testa di Zero quattro anni prima, che aveva cancellato dalla sua memoria qualsiasi ricordo della CIA. Ma Guyer aveva agito su richiesta di Zero, e in seguito fu anche il medico che eseguì la procedura che gli aveva riportato tutti quei ricordi, molto tempo dopo.
Entrambi erano stati in contatto costantemente durante l'ultimo anno; il dottore era stato felice di apprendere che i ricordi di Zero erano tornati e si era mostrato desideroso di eseguire ulteriori test, ma ciò avrebbe richiesto un viaggio in Svizzera, che Zero non aveva avuto il tempo o l'energia per fare, sebbene ammettesse che glielo doveva. Tuttavia, se qualcuno avesse potuto dirgli cosa stesse succedendo nella sua mente, quello era Guyer.
“Agente Steele” disse una voce profonda attraverso il telefono, accentuata e abbastanza cupa da suggerire che avrebbero saltato i convenevoli. “Alina ha detto che sembravi angosciato. Qual è il problema?”
“Dottor Guyer”, disse Zero. “Ho bisogno di aiuto. Non sono sicuro di cosa stia succedendo, ma…” Si fermò quando un altro orribile pensiero lo colpì. E se quella non fosse una chiamata privata? E se qualcuno stesse ascoltando? La CIA aveva già tracciato le sue telefonate in precedenza. E se avessero sentito tutto ciò…
Stai diventando paranoico. Non fare sempre gli stessi errori.
Nonostante ciò, una volta che quel