trinchetto, schiantato sotto la coffa, precipitò sul ponte ingombrando di pennoni, di vele, di cavi. Alle urla di trionfo erano succedute urla di spavento e di dolore, gemiti e rantoli d’agonia.
Era impossibile resistere a quell’uragano di ferro che arrivava con rapidità spaventosa facendo saltare alberi, murate, madieri.
I naufraghi, vistisi perduti, dopo aver scaricato sette od otto volte i loro moschettoni, malgrado i sagrati del capitano e di mastro Bill, abbandonarono il posto fuggendo a tribordo, riparandosi dietro i rottami dell’attrezzatura e delle imbarcazioni.
Alcuni di loro perdevano sangue e gettavano grida strazianti.
I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d’ora giunsero sotto la poppa del vascello tentando di issarsi a bordo.
Il capitano Mac Clintock si gettò da quella parte per ribattere l’abbordaggio, ma una scarica di mitraglia lo freddò assieme con tre uomini.
Un urlo terribile echeggiò per l’aria:
– Viva la Tigre della Malesia!
I pirati gettano le carabine, impugnano le scimitarre, le scuri, le mazze, i kriss e danno intrepidamente l’abbordaggio aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle griselle. Alcuni si slanciano sulla cima degli alberi dei prahos, corrono come scimmie lungo i pennoni e piombano sull’attrezzatura del tre-alberi lasciandosi scivolare in coperta. In un attimo i pochi difensori, sopraffatti dal numero, cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello.
Presso l’albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante e larga sciabola d’abbordaggio, rimaneva ancora…
Quest’uomo, l’ultimo della Young-India, era l’indiano Kammamuri, il quale si difende come un leone, smussando le armi del nemico incalzante e percuotendo a destra e a sinistra.
– Aiuto! aiuto!… – urlò il poveretto con voce strozzata.
– Ferma! – tuonò d’improvviso una voce. – Quell’indiano è un prode!…
3. La Tigre della Malesia
L’uomo che aveva gettato in così buon momento quel grido poteva avere trentadue o trentaquattro anni.
Era alto di statura, con la pelle bianca, i lineamenti fini, aristocratici, due occhi azzurri, dolci, e i baffi neri che ombreggiavano le labbra sorridenti.
Vestiva con estrema eleganza: giacca di velluto marrone con bottoni d’oro stretta ai fianchi da una larga fascia di seta azzurra, calzoni di broccatello, lunghi stivali di pelle rossa, a punta rialzata, e un ampio cappello di paglia di vera manilla in testa. Ad armacollo portava una magnifica carabina indiana e al fianco pendeva una scimitarra la cui impugnatura d’oro era sormontata da un diamante grosso quanto una nocciola, d’uno splendore ammirabile.
Con un cenno allontanò i pirati, si avvicinò all’indiano che non aveva pensato a rialzarsi, tanta era la sua sorpresa nel sentirsi ancora vivo, e lo guardò per alcuni istanti con profonda attenzione.
– Che ne dici? – gli chiese con tono allegro.
– Io!… – esclamò Kammamuri, che si domandava chi poteva mai essere l’uomo dalla pelle bianca che comandava quei terribili pirati.
– Sei sorpreso di sentirti ancora la testa sulle spalle?
– Tanto sorpreso che mi domando se è vero che sono ancora vivo.
– Non dubitarne, giovanotto.
– Perché? – chiese ingenuamente l’indiano.
– Perché non sei un bianco, innanzitutto…
– Ah! – esclamò – Voi odiate i bianchi?
– Sì.
– Non siete un bianco, voi, dunque?
– Per Bacco, un portoghese puro sangue!
– Non capisco allora perché voi…
– Alto là, giovanotto; questo discorso non mi va a sangue.
– Sia pure, e poi?
– Poi, perché sei un prode e io amo i prodi.
– Sono maharatto – disse l’indiano con fierezza.
– Una razza che ha un buon nome. Dimmi un po’, ti spiacerebbe esser dei nostri?
– Io, pirata!
– E perché no? Per Giove! Saresti un bravo compagno.
– E se rifiutassi?
– Non risponderei più della tua testa.
– Se si tratta di salvare la pelle, mi farò pirata. Chissà forse è meglio.
– Bravo giovanotto. Olà, Kotta, vammi a cercare una bottiglia di whisky. Gli americani non navigano mai senza una buona provvista.
Un malese di cinque piedi di altezza, con due braccia smisurate, scese nella cabina del povero Mac Clintock e pochi istanti dopo ritornava con un paio di bicchieri e una polverosa bottiglia alla quale aveva fatto saltare il collo.
– Whisky – lesse Yanez sull’etichetta. – Questi americani sono davvero eccellenti uomini. -
Empì due tazze e ne porse una all’indiano, chiedendogli:
– Come ti chiami?
– Kammamuri.
– Alla tua salute, Kammamuri.
– Alla vostra, signor…
– Yanez – disse l’uomo bianco.
E tracannarono d’un fiato i due bicchieri.
– Ora, giovanotto – disse Yanez, sempre di buon umore, – andremo a trovare il capitano Sandokan.
– Chi è questo Sandokan?
– Per Bacco! La Tigre della Malesia.
– E voi mi condurrete da quell’uomo?
– Certo, mio caro, e sarà lieto di ricevere un maharatto. Andiamo, Kammamuri.
L’indiano non si mosse. Pareva imbarazzato e guardava ora i pirati ed ora la poppa della nave.
– Che cos’hai? – chiese Yanez.
– Signor… – disse il maharatto, esitando.
– Parla.
– Non la toccherete?
– Chi?
– Ho una donna con me.
– Una donna! Bianca o indiana?
– Bianca.
– E dov’è?
– L’ho nascosta nella stiva.
– Conducila sul ponte.
– Non la toccherete?
– Hai la mia parola.
– Grazie, signore – disse il maharatto con voce commossa.
Corse a poppa e sparve nel boccaporto. Pochi istanti dopo risaliva sul ponte.
– Dov’è questa donna? – chiese Yanez.
– Sta per venire, ma non una parola, signore. Ella è pazza.
– Pazza!… Ma chi è?
– Eccola! – esclamò Kammamuri.
Il portoghese si volse verso poppa.
Una donna di meravigliosa bellezza, avvolta in un gran mantello di seta bianca, era improvvisamente uscita dal boccaporto arrestandosi presso il tronco dell’albero di mezzana.
Poteva avere quindici anni. La sua persona era elegante, graziosa, flessuosa; la sua pelle rosea, di una morbidezza impareggiabile; gli occhi grandi, neri e d’una dolcezza infinita; il naso piccolo e dritto; le labbra sottili, rosse come il corallo, schiuse ad un ineffabile sorriso, che lasciava scorgere due file di piccolissimi e bianchissimi denti. Una capigliatura opulenta,