me lo permettete, – disse il giovane, preferirei rimanere qui a guardia della vostra nave.
– Tu sei pazzo!
– Forse meno di quello che credete, capitano. Mio padre un giorno naufragò non so su quale scogliera della Terra del Fuoco e si salvò solo perché era rimasto a bordo della nave, mentre dei suoi compagni, che si erano affidati a una zattera, non si udì parlare mai più.
– Questione di fortuna.
– Lasciatemi provare dunque.
– Io non ho fiducia nella fortuna e perciò non commetterò la sciocchezza di lasciare qui il mio mozzo… Tu non sei ancora un uomo e io rispondo della tua vita. Scendi sulla zattera, ti dico, o ti afferro e di getto giù.
– Capitano! – esclamò Emanuel. – Ho diciassette anni!
– Se tu ne avessi anche venti non ti lascerei egualmente qui… Giù, comando io qui!
Il mozzo borbottò qualcosa, poi vedendo che don Josè avanzava per afferrarlo, si aggrappò alla fune calandosi rapidamente sulla zattera.
– Troveranno il segnale, – borbottò, mentre un lampo maligno gli balenava negli occhi nerissimi.
Il capitano, dopo aver percorso tutta la tolda della sua povera nave, si calò a sua volta sul galleggiante, mormorando a più riprese:
– Addio, mia povera Andalusia!
Quando mise i piedi sulla zattera era molto commosso. Diede con voce ferma il comando di troncare la gomena, l’ultimo legame che ancora li univa all’Andalusia. L’albero, formato da un robusto pennone di gabbia, era stato rizzato, spiegando una vela di pappafico, l’unica trovata a bordo. La zattera, investita da un fresco vento di sud-est, si staccò dalla nave, rollando fortemente e lasciando addietro una grossa scia spumeggiante. Avanzava però lentissima, e il bosmano la dirigeva con un lungo remo, che bene o male, gli serviva da timone. Il capitano, dopo aver dato la rotta, avendo portato con sé le bussole e anche gli strumenti necessari per il punto, si era diretto verso poppa dove il carpentiere aveva fatto rizzare un pezzo di murata, per mettere al coperto dalle onde almeno il timoniere. Mina e don Pedro si trovavano là anche loro, l’uno accanto all’altra, guardando con occhi pieni di tristezza l’Andalusia sempre inchiodata sulla scogliera.
– Coraggio, ragazzi, – disse don Josè, posando le mani sulle loro spalle. – La baia e l’isola di Bualabea non sono lontane: se Dio lo permette, fra tre o quattro giorni sbarcheremo alla foce del Diao. E la tribù dei Krahoa e la Montagna Azzurra non si trovano appunto presso le sorgenti di quel fiume?
– Sì, don Josè. – rispose il giovane.
– Voi conservate il talismano?
– Lo porto sul mio petto.
– Perdete tutto fuorché quello, poiché altrimenti invece di acquistare il tesoro accumulato da vostro padre, potreste acquistarvi una buona graticola per arrostirvi.
– Lo so che ai kanaki piace la carne umana.
– Mil Diables! La ritengono più squisita di quella dei loro maialetti.
– E non incontreremo, prima di raggiungere la sorgente del Diao, altre tribù che non avranno nulla a che fare con i Krahoa?
– È possibile don Pedro, e per questo ho fatto imbarcare sulla zattera una mezza dozzina di carabine e più di trenta libbre fra polvere, piombo e pallettoni.
– Purché non arrivi prima don Ramirez, – osservò Pedro, che era diventato pensieroso. – Quello ha del coraggio da vendere e non ha scrupoli.
– Lo so, – rispose il capitano.
– Come vedere, don Josè, dobbiamo sbarcare il più presto possibile.
– Se quel maledetto uragano non ci avesse sorpresi, questa sera avremmo potuto dormire tranquillamente nella baia di Bualabea, al sicuro fra l’isola e la costa della Nuova Caledonia. Non è però il caso di guastarci il sangue per ora. Forse quel galeotto di Ramirez è ancora lontano. Possiede una buona goletta, mi avete detto?
– La migliore di tutte quelle che navigano fra Iquique e Valparaiso.
– Anche la mia Andalusia filava come una rondine. L’avete vista alla prova… Lasciamo per il momento il tesoro della Montagna Azzurra e don Ramirez e occupiamoci della zattera.
Veramente non ce n’era bisogno, poiché il galleggiante filava discretamente bene, nonostante dovesse rimorchiare una dozzina di grossi barili. Però andava alla deriva verso settentrione, malgrado gli sforzi del bosmano, a causa della velatura imperfetta e della sua mole. Il mare fortunatamente era tranquillo. Solo di quando in quando una lunga ondata, piuttosto violenta, giungeva da levante e scuoteva il galleggiante facendolo scricchiolare minacciosamente e mandando a gambe all’aria i marinai, specialmente quelli che stavano lungo l’orlo della zattera con la speranza di sorprendere qualche pesce, muniti di fiocine che potevano servire benissimo contro gli sword-fish che abbondano in quei mari. Nessuna terra e nessuna nave appariva in vista, nemmeno una di quelle doppie piroghe delle quali si servono gli isolani del Pacifico e che si allontanano spesso dalle isole per parecchie centinaia di miglia. Solamente pochi uccelli marini svolazzavano rapidissimi e tenendosi anche ben lontani dal galleggiante, come se si fossero accorti che la loro vita era in pericolo. Poiché il caldo si era fatto intensissimo, don Josè, che non si era dimenticato di far imbarcare alcuni pennoncini, delle manovelle, dei cordami e dei velacci, aveva fatto innalzare verso poppa una piccola tenda destinata a Mina. La fanciulla non sembrava preoccuparsi un gran che dei gravi rischi che correvano i naufraghi. Forse non aveva ancora ben compresa la gravità della situazione e credeva si trattasse semplicemente di una breve passeggiata su quel galleggiante, che per lei non differiva molto dalla tolda dell’Andalusia. Seduta davanti alla tenda, chiacchierava tranquillamente con Emanuel, per il quale aveva una predilezione per il suo inalterabile buonumore. A mezzogiorno don Josè, dopo aver fatto il punto e avere verificato che la zattera aveva guadagnato nella mattinata undici miglia verso ponente, marcia sufficiente se si tiene conto della forte deriva, procedette alla prima distribuzione dei viveri: dodici biscotti divisi fra diciassette persone con pochi grammi di formaggio salato per ciascuno. La razione d’acqua però fu abbondante, essendo stati imbarcati cinque barili ben pieni e quella fu forse meglio accolta dei viveri, perché il caldo era molto forte. Durante il pomeriggio la marcia della zattera si ridusse quasi a zero, dato che era sopraggiunta una calma assoluta, che non doveva cessare che dopo il calar del sole e che il capitano, pratico di quelle regioni, aveva già previsto. I marinai tentarono di rifarsi di quell’ozio forzato pescando, ma con completo insuccesso. Nessun sword-fish si era fatto vedere, nemmeno un pesce veliero. Parere che perfino gli abitanti del mare, come quelli dell’aria, si tenessero ben lontani da quella zattera della fame. Dopo il tramonto il vento tornò a farsi sentire, ma non soffiava più da sud-est, ma da settentrione, ciò che richiedeva una manovra faticosissima e con nessun vantaggio per i naviganti.
– Si direbbe che il cielo congiura contro di noi, – disse don Josè a don Pedro. – E pensare che non abbiamo viveri che fino a domani!
– E che siamo destinati a provare le torture della fame se non quelle della sete?
– Sono sempre preferibili, don Pedro, – rispose il capitano. – Alla fame, per un certo tempo, si può resistere. Alla mancanza d’acqua, sotto questi climi infuocati, assolutamente no.
– E nulla da pescare!
– I pescicani non tarderanno a mostrarsi nelle nostre acque. Quei dannati fiutano i naufraghi a distanze incredibili: purtroppo non si lasciano accostare. Bah! Chissà che domani le cose non cambino.
Poiché erano tutti molto stanchi e avevano rinunciato alla manovra delle bordate per non affaticarsi inutilmente, si coricarono in mezzo alle tele e ai barili, dopo aver messo quattro uomini di guardia sotto il comando del bosmano, dato che poteva accadere che qualche nave in rotta per l’Australia settentrionale passasse in vista della zattera. Fra gli uomini di guardia era stato scelto anche il mozzo, che godeva fama di avere una vista meravigliosa. Il chiquiyo, come lo chiamava Reton, a cui non si sa per quale motivo era sempre