Emilio Salgari

Jolanda, la figlia del Corsaro Nero


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nella sala, giacché i più avevano scommesso per il nuovo gallo. El Plata però, con una scossa improvvisa riuscì a liberarsi dalla stretta, ma non riuscì a parare un colpo di becco dell’avversario che gli strappò un occhio.

      «Così almeno sono pari» disse Carmaux. «L’uno e l’altro ne hanno perduto uno».

      Il careador si era precipitato verso El Plata. Gli fece ingoiare un sorso d’acquavite, gli lavò la testa colla spugna per sbarazzarlo dai grumi di sangue, gli sprizzò nell’orbita vuota un po’ di succo di limone, poi tornò a lanciarlo sulla tavola, dicendo:

      «Su, mio bravo».

      Aveva avuto troppa fretta. Il povero gallo, ancora stordito, non poté far fronte al fulmineo attacco del prode Zambo e cadde quasi subito colla testa spaccata da un furioso colpo di becco.

      «Che cosa vi avevo detto, señor?» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.

      «Che voi siete uno stregone, od il migliore careador dell’America».

      «Con tutte queste piastre che abbiamo guadagnato, possiamo permetterci il lusso di vuotare una bottiglia di Xeres. Ve l’offro io, se non vi rincresce».

      «Lasciate a me questo onore».

      «Come volete, señor».

      Capitolo secondo. Il rapimento del piantatore

      Mentre venivano portati due altri galli, durando quei combattimenti delle notti intere talvolta, Carmaux, Wan Stiller ed il grasso don Raffaele, seduti intorno ad un tavolo collocato in un angolo della sala, trincavano allegramente, come vecchi amici, dell’eccellente Xeres a due piastre la bottiglia.

      Lo spagnolo, messo in buon umore dalle vincite fatte e da alcuni bicchieri, chiacchierava come una gazza, vantando le sue piantagioni, le sue raffinerie di zucchero, e facendo comprendere ai due avventurieri come egli fosse uno dei pezzi grossi della colonia.

      Ad un tratto s’interruppe, chiedendo a bruciapelo a Carmaux, che continuava a riempirgli il bicchiere:

      «Ma… señor mio, non siete della colonia voi?»

      «No, anzi siamo giunti solamente questa sera».

      «Da dove?»

      «Da Panama».

      «Siete venuti per cercare qui da occuparvi? Ho qualche posto sempre disponibile».

      «Siamo gente di mare, signore, noi e poi non abbiamo intenzione di fermarci a lungo qui».

      «Cercate qualche carico di zucchero?»

      «No» disse Carmaux, abbassando la voce. «Siamo incaricati di una missione segreta per conto dell’illustrissimo signor presidente dell’Udienza reale di Panama».

      Don Raffaele sgranò tanto d’occhi e divenne leggermente pallido per l’emozione.

      «Signori» balbettò. «Perché non me lo avete detto prima?»

      «Silenzio e parlate a voce bassa. Noi dobbiamo fingerci avventurieri e nessuno deve sapere chi ci ha qui mandati» disse Carmaux con voce grave.

      «Siete incaricati di qualche inchiesta sull’amministrazione della colonia?»

      «No, di appurare una notizia che interessa assai l’illustrissimo signor presidente. Ah! Ora che ci penso, voi potreste dirci qualche cosa. Frequentate la casa del governatore?»

      «Prendo parte a tutte le feste ed a tutti i ricevimenti signor…»

      «Chiamatemi semplicemente Manco» disse Carmaux. «Dicevo che voi, che frequentate la casa del governatore, potreste darci qualche preziosa informazione».

      «Sono tutto a vostra disposizione. Chiedetemi».

      «Questo non è veramente il luogo» disse Carmaux, sbirciando gli spettatori. «Si tratta di cosa molto grave».

      «Venite a casa mia, señor Manco».

      «Le pareti talvolta hanno delle orecchie. Preferisco l’aria libera».

      «Le vie sono deserte a quest’ora».

      «Andiamo sulla calata, così noi saremo vicini alla nostra nave. Vi spiacerebbe, señor?»

      «Sono ai vostri ordini per far piacere all’illustrissimo presidente. Gli parlerete di me?»

      «Oh! Non dubitatene».

      Vuotarono la seconda bottiglia, pagarono il conto e uscirono, mentre un quarto gallo cadeva sulla tavola, colla testa traforata da uno degli speroni dell’avversario.

      Carmaux e l’amburghese, quantunque avessero vuotato nientemeno che sei bottiglie, pareva che avessero mandato giù dell’acqua; il piantatore invece aveva le gambe malferme e si sentiva girare la testa.

      «Sii pronto quando io ti darò il segnale» mormorò Carmaux agli orecchi dell’amburghese. «Sarà una buona presa».

      Wan Stiller fece col capo un cenno di assentimento.

      Carmaux passò familiarmente un braccio sotto quello del grasso piantatore, per impedirgli di camminare a sghimbescio, e tutti e tre si diressero verso la spiaggia, attraversando viuzze strette e oscurissime, non sentendosi in quei tempi il bisogno dell’illuminazione delle strade.

      Quando sboccarono sul largo viale di palme, che conduceva al porto, Carmaux che fino allora era rimasto silenzioso, scosse il piantatore che pareva fosse lì lì per addormentarsi, dicendogli:

      «Possiamo parlare; non v’è nessuno qui».

      «Ah! Già… il presidente… il segreto…» borbottò don Raffaele aprendo gli occhi. «Eccellente quell’Alicante… un altro bicchiere, señor Manco».

      «Non siamo più nella taverna, mio caro signore» disse Carmaux. «Se vorrete vi torneremo e vuoteremo altre due o tre bottiglie».

      «Eccellente… squisito…»

      «Basta, lo sappiamo, veniamo al fatto. Voi mi avete promesso di darmi le informazioni che desideravo e badate che vi è di mezzo l’illustrissimo signor presidente dell’Udienza reale di Panama e vi avverto che quell’uomo non ischerza».

      «Sono un suddito fedele».

      «Bene, bene, señor».

      «Parlate, che cosa desiderate? Io sono amico del governatore… molto amico…»

      «Un amicone, lo sappiamo. Ditemi, e aprite bene gli orecchi, e pensate bene quello che dite. È vera la voce corsa che qui si trovi la figlia del cavaliere di Ventimiglia, il famoso Corsaro Nero? È vera? Il signor presidente dell’Udienza vorrebbe saperlo».

      «Che cosa può importargliene?» chiese don Raffaele, con stupore.

      «Né io né voi dobbiamo saperlo. È vero o no?»

      «È vero».

      «Quando è giunta?»

      «Saranno quindici giorni. L’hanno catturata su una nave olandese, caduta in potere d’una nostra fregata, dopo un sanguinoso combattimento».

      «Che cosa veniva a fare qui, in America?»

      «Si dice che venisse a raccogliere l’eredità di suo nonno, Wan Guld. Il duca possedeva vaste tenute qui e anche a Costarica, che non sono mai state vendute».

      «È vero che è prigioniera?»

      «Sì».

      «Perché?» «Voi vi scordate, sembra, quanto male abbia fatto a Maracaybo ed a Gibraltar suo padre, il Corsaro Nero».

      «Per vendicarsi, dunque».

      «E per impedirle di entrare in possesso dei beni del duca. Rappresentano dei bei milioni, che il governatore conta di far passare nelle casse proprie ed in quelle del governo».

      «E se il Piemonte o l’Olanda reclamassero la sua libertà? Voi sapete che non è suddita spagnola».

      «Vengano a prenderla, se l’osano».

      «Dove si trova ora?»

      «Questo lo ignoro» disse don Raffaele dopo un po’