ora è diventato triste? Si direbbe che ha lasciato qualche cosa a Machmudiech… si direbbe che s’allontana a malincuore.
Egli tornò indietro in punta di piedi e osservò minutamente il compagno. S’accorse che aveva gli occhi rivolti al villaggio e precisamente verso il caffè. Fece un gesto di sorpresa e fors’anco d’impazienza.
— Oh!… esclamò egli.
Uno strano lampo guizzò nei suoi neri occhi. Quasi nel medesimo istante Abd el-Kerim si volse. La sua faccia si alterò, atteggiandosi a meraviglia e a dispetto.
— Che vuoi, Notis? chiese egli colla maggior calma del mondo.
— Ho veduto una zeribak, rispose il greco con egual tranquillità.
— Non temere, che è quella del sudanese. Là vi sono i nostri mahari.
Notis non si mosse; aspettò che egli fosse vicino, poi gli chiese bruscamente.
— Che hai Abd-el-Kerim?
L’arabo lo guardò come cercasse leggergli negli occhi lo scopo di quella domanda.
— Tu guardavi fisso fisso Machmudiech, continuò Notis quasi distrattamente. Perchè?
— Bah! per curiosità.
— Ti dispiacerebbe per caso allontanarti da quel villaggio?
— Perchè, e l’arabo lo guardò ancor più attentamente e con sospetto.
— Non so, mi pareva…
— Non ho alcuna cosa che m’interessi a Machmudiech. Tiriamo innanzi, Notis, che è tardi. Dobbiamo fare più di 40 miglia per giungere a Hossanieh.
Essi si rimisero in cammino e giunsero vicini alla zeribak, in mezzo alla quale vedevansi sorgere due lunghe aste sostenenti uno stracciato vessillo egiziano.
Al primo fischio che mandò Abd-el-Kerim, un sudanese uscì, abbigliato con una semplice farda bianca gettata graziosamente su di una spalla e d’un tarabisc rosso sul capo.
— I mahari? chiese brevemente l’ufficiale.
— Sono pronti.
Entrarono nella zeribak, in mezzo alla quale stavano inginocchiati i due animali. Questi mahari o hadjin, meglio conosciuti per dromedari, sono cammelli riservati per le corse, docili come cani, più intelligenti dei cavalli, più sobri e più pazienti dei djemel o cammelli comuni, dal portamento nobile, altero, e che alla menoma pressione della guida legata all’anello incastrato nelle nari, vanno rapidi come il vento percorrendo persino settanta miglia al giorno. S’accontentano di un nulla, d’un pezzo di pane, d’un pugno d’orzo o di datteri o di un fastello d’erbe secche e spinose, e son felici quando l’arabo lascia a loro aspirare il fumo del scibouk prima che passi dalla cannuccia e doppiamente felici d’una parola affettuosa, d’una semplice carezza.
Il sudanese li aveva già insellati, accomodando sulla loro gobba una sella di pelle di montone cava nel mezzo e fornita dinanzi e di dietro di un pezzo di legno rotondo, posto orizzontalmente, che serve di appoggio al cavaliere, e appendendo ai loro fianchi i fucili remingtons, le borse di cuoio e le otri contenenti il cibo o l’acqua, viveri indispensabili in Africa, dove le città sono rarissime e i villaggi assai scarsi.
Nel mentre che il greco esaminava le cinghie della sua cavalcatura, Abd-el-Kerim con un cenno impercettibile chiamava a sè il sudanese,
— Hai veduto passare alcuno? chiese rapidamente e sotto voce.
— Sì, disse il sudanese.
— Chi?
— Due persone su di un mahari dal mantello fosco.
— Erano?…
— L’ignoro, ma una pareami una donna.
Abd-el-Kerim sussultò. La sua faccia, che poco prima era tetra, s’illuminò di un raggio di gioia. Con un gesto congedò il sudanese.
— In sella Notis, diss’egli.
I due ufficiali fecero inginocchiare i mahari emettendo un semplice khh! khh! sospirato e s’arrampicarono sulle gobbe sedendosi colle gambe incrociate.
— Allàh vi guardi, disse il sudanese,
– Ih! ih! gridò Notis.
I due mahari, obbedienti al segnale, uscirono dalla zeribak e partirono seguendo il sentiero che menava all’ovest, prendendo un lungo trotto, alzando e abbassando bruscamente la testa e la coda, andatura assai malagevole per chi non vi è abituato, il quale crede sempre di perdere l’equilibrio e per le continue e violenti scosse prova forti dolori al capo, dolori alle mani che si gonfiano e dolori alle reni che si pestano e pare che si spezzino.
L’oscurità allora erasi fatta assai più fitta, specialmente sotto la foresta, le cui grandi vôlte di verzura impedivano che trapelassero quasi i raggi lunari. Appena appena scorgevansi i colossali tronchi di tamarindi i cui rami flessibili sostenevano enormi quantità di frutta sei volte più lunghe che larghe e ripiene di una polpa molle e acida; le grandi camerope a ventaglio dal fusto cilindrico coperto di grosse squame regolari e coronate alla sommità da un magnifico ciuffo di trenta o quaranta foglie disposte a ventaglio; le acacie mimose alte come un olmo, sui cui tronchi risaltavano le grossissime bolle della preziosa gomma che trasuda; le palme deleb coi fusti rigonfi nel mezzo e tutti i centomila arrampicanti che s’attortigliavano come serpi attorno ai tronchi degli alberi e che s’arrampicavano sui rami formando spesso dei pergolati naturali veramente ammirabili.
I mahari eccitati dalla correggia dei cavalieri, che serve nel medesimo tempo di frusta, in meno di quindici minuti attraversarono la foresta, la quale stendesi in lunghezza, sì a destra che a sinistra del Bahr-el-Abiad, da Chartum fino ad Machadat Abu Zet, su due miglia o poco più di larghezza. Sbucati nelle grandi e aride pianure di Gemaije, animate solo da qualche gruppo di palme, da qualche acacia tisica e da miserabili tugul o capanne, allungarono il passo filando come giganteschi e silenziosi fantasmi verso gli ondulati terreni del sud, in direzione d’Hossanieh.
Notis che galoppava a pochi passi di distanza da Abd-el-Kerim, s’avvide subito che questi dava segni strani d’inquietudine della quale non sapeva ancora indovinare la cagione. Lo vedeva spesso rizzarsi in sella come volesse abbracciare maggiore orizzonte, spingere lo sguardo a destra, a manca e dinanzi, e talvolta fare un gesto quasi di scoraggiamento e di stizza. Più volte lo vide portare ambe le mani agli orecchi e piegarsi verso terra come uno che cerchi raccogliere qualche lontano rumore.
— Che mai può avere? andava chiedendosi il greco tormentando la correggia del mahari e figgendo sempre gli occhi addosso al compagno. Si vede che ha qualcosa che lo preoccupa ma cerca di nascondermelo. Quegli occhi fissi sul villaggio, anzi sul caffè, proprio in quel medesimo luogo ove danzò.... Potrebbe essere vero?…
Un terribile sospetto balenò nella mente di lui, sospetto che gli fe’ gelare il sangue nelle vene e montare, nel medesimo tempo, una fiamma in viso. Un truce e sinistro lampo animò i suoi occhi che s’accesero come due carboni.
— Ah!… mormorò egli.
Trasse dalla sua borsa un pizzico di tabacco, lo arrotolò in un fogliolino di carta, ne formò una sigaretta che accese, malgrado la rapidità vertiginosa del mahari, mandò in aria tre o quattro boccate di fumo, e volgendosi verso Abd-el-Kerim:
— A che pensi cognato mio? gli chiese, affettando la massima noncuranza.
— A mille cose, rispose l’arabo.
— Tu pensi a mia sorella Elenka, Abd-el-Kerim, te lo dirò io.
L’arabo stette un momento muto, come non avesse capito.
— Non puoi ingannarti, rispose di poi. La fiamma che nasce nel cuore, non si spegne neanche in sogno.
— Ed io sai a chi penso?
— Leggere il pensiero dell’uomo non è