circolo formato dagli spettatori si era subito allargato, onde lasciare ai due pugilatori spazio maggiore.
Un silenzio profondo era succeduto a quella pioggia d’invettive, rotto solo dal grido lamentevole e noioso d’una coppia di scimmie appollaiate fra i rami d’un fico baniano. Pareva che tutti trattenessero perfino il respiro, per non perdere nulla di quella lotta, che prometteva di diventare terribile e che poteva finire colla morte dell’uno o dell’altro avversario.
Palicur, mancatogli il primo colpo, si era affrettato a rimettersi in guardia e si teneva diritto, mostrando la sua superba statura d’atleta, mentre il cingalese invece, che doveva meditare qualche tiro a sorpresa, si era come ripiegato su se stesso, in modo da coprirsi tutto il corpo coi pugni e colle braccia.
Per qualche istante i due avversari si guardarono, poi il malabaro si piegò a sua volta bruscamente, dicendo:
«Ti ho compreso, Guercio: prendi!»
Il suo formidabile pugno scattò colpendo il cingalese in mezzo al petto, il quale risuonò come una grancassa. Se quel corpo non fosse stato più che robusto, avrebbe certamente ceduto sotto il colpo poderoso. Il Guercio fece una brutta smorfia e strinse le labbra per non lasciarsi sfuggire un grido di dolore, poi a sua volta si slanciò, menando uno dopo l’altro sette od otto pugni, che il malabaro ricevette sugli avambracci senza scuotersi.
«Ah! Perdi la flemma! – esclamò l›indiano con voce tranquilla. – Le braccia dei pescatori di perle possono resistere anche alle martellate e perdi inutilmente il tuo tempo, Guercio, se batti qui.»
Un urlo di rabbia era sfuggito alla spia.
«Che non ti possa demolire, brutto malabaro! – ruggì. – Eppure devi cadere.»
Fece tre passi indietro, tornando a ripiegarsi su se stesso. Il malabaro, che non voleva lasciargli il tempo di preparare qualche altro gioco, spiccò un salto innanzi per investirlo subito, ma ricevette un pugno in pieno viso che lo fece traballare e gli fece sprizzare sangue dal naso.
L’europeo mandò un grido credendolo perduto, ma il pescatore di perle si riebbe prontamente. Piombò sul cingalese, che stava in quel momento per rialzarsi, e l’abbracciò a mezzo corpo, alzandolo da terra e scuotendolo vigorosamente.
Il Guercio, non essendosi aspettato quell’attacco che convertiva il pugilato in una partita di lotta, dapprima non oppose resistenza; poi, comprendendo che stava per venire atterrato, puntò le ginocchia sul ventre del malabaro il quale fu costretto a deporlo.
Allora fra i due atleti s’impegnò una lotta disperata. Si afferravano a vicenda, si urtavano poderosamente, si abbassavano e si alzavano tentando di atterrarsi. Ansavano, grondavano sudore, e non mandavano alcun grido per non svegliare i sorveglianti che dormivano non molto lontano, sotto la tettoia del deposito dei legnami.
Il cingalese opponeva una resistenza furiosa, tuttavia si capiva facilmente che avrebbe finito per cedere. Le sue forze si esaurivano rapidamente, mentre il malabaro conservava le sue per l’ultimo momento.
L’europeo seguiva attentamente col più vivo interesse le diverse fasi della lotta, incoraggiando di quando in quando il pescatore di perle con uno sguardo o con un gesto della mano. Gli altri scommettevano sottovoce, non già denari, bensì le loro magre razioni.
La lotta durava da quattro o cinque minuti, sempre più ostinata, quando il malabaro, che era riuscito a liberarsi la destra, scaricò un pugno terribile sul cranio dell’avversario. Questi si piegò bruscamente, sbalordito da quel colpo che gli aveva rintronato il cervello.
Bastò quell’attimo di interruzione perché il pescatore di perle ne approfittasse. Sollevò il Guercio fra le poderose braccia, lo tenne un momento sospeso, poi lo scaraventò dieci passi lontano, nel bel mezzo d’un cespuglio.
«Dagli il resto, malabaro! – esclamarono gli spettatori. – Concialo per bene.»
Palicur era già sopra alla spia ed aveva alzato nuovamente il pugno per dargli una tremenda lezione, quando una voce minacciosa risuonò a breve distanza: «Ferma o ti brucio le cervella!»
Un uomo vestito di tela bianca, con un elmo di sughero in testa coperto d’una fascia di flanella, si era aperto violentemente il passo fra gli spettatori, tenendo nella destra una pistola a doppia canna, che puntò risolutamente sul malabaro. Era uno dei sorveglianti della colonia penale, il quale era stato probabilmente svegliato dalle ultime grida dei forzati.
Palicur, udendo quella voce minacciosa, abbassò il pugno e si voltò verso il guardiano, dicendogli:
«Non abbiamo fatto nulla di male. Abbiamo semplicemente provato le nostre forze in una partita di lotta.»
Il Guercio aveva approfittato dell’intervento per sgusciare fra il cespuglio e mettersi in salvo presso il sorvegliante.
«Quel cane d›un malabaro ha mentito! – gridò. – Egli mi voleva accoppare, sospettando in me una spia.»
«Buffone! – gridò l’europeo. – Sei più vile d’uno sciacallo.»
«Taci tu, Will, – disse il guardiano ruvidamente. – Tu non hai maggior diritto di parlare degli altri ed io non ti ho interrogato.»
«Ma sì, il Guercio ha mentito!» urlarono in coro gli spettatori.
«E perché sanguina allora il naso di Palicur?» chiese il sorvegliante.
«Perché sono caduto,» rispose il malabaro.
«Non è vero, – urlò il cingalese. – Mi ha aggredito e nel difendermi gli ho dato un pugno, e vi era con lui anche l’europeo. Vi consiglio anzi di tenerli d’occhio, signor Bek, perché li ho sorpresi mentre ordivano la fuga. Ecco il movente della loro aggressione.»
Un urlìo di collera accolse le parole del briccone. Tutti i forzati tesero i pugni verso di lui e si fecero innanzi minacciosi, pronti ad accopparlo. Il sorvegliante si gettò prontamente dinanzi al cingalese, poi estrasse la daga che portava appesa alla cintura, mentre impugnava la pistola colla sinistra.
«Fermi, furfanti!– gridò. – Il primo che si accosta è uomo spacciato.»
Poi mandò un lungo fischio, il fischio di allarme e di richiamo dei poliziotti inglesi. Tosto altri quattro sorveglianti armati di fucile sbucarono dalle vicine macchie, collocandosi ai fianchi del loro compagno. I forzati, che parevano disposti a scagliarsi contro il cingalese ed il suo protettore, vedendo giungere quel rinforzo si fermarono. Solo l’europeo fece qualche passo innanzi, dicendo con voce grave:
«Spero, signor Bek, che voi non crederete a quello che ha detto quel miserabile cingalese. Nessuno lo ha aggredito, potete credere alla parola leale d›un uomo di mare.»
«Tu sei un forzato al pari degli altri e la tua parola non ha maggior valore della loro, quantunque tu sia un inglese al pari di me,» rispose il sorvegliante.
Una viva fiamma balenò negli sguardi di Will, mentre un pallore mortale gli copriva il volto.
«Un giorno, – disse con voce alterata, fremente di collera e d›indignazione, – fui un uomo d’onore. Se io ho ucciso il mio sergente d’armi lo feci perché costrettovi e spintovi in un momento di follia, e voi lo sapete. Mi hanno condannato e sia pure, ma questa condanna non ha guastato la lealtà dell’antico quartiermastro della Britannia.»
L’espressione dura, quasi sprezzante, che si leggeva sul volto del guardiano, si era a poco a poco dileguata.
«Ti credo, – disse, con accento un po› raddolcito. – Sono però costretto a rinchiudervi tutti e tre nella cella di rigore, finché i fatti saranno chiariti. Io non posso trasgredire i regolamenti.»
«Fate pure, – rispose asciuttamente l›ex quartiermastro della Britannia, porgendo i polsi. – Ammanettatemi.»
Il sorvegliante fece un segno ai suoi uomini, i quali s’affrettarono ad incatenare le braccia all’europeo, al malabaro ed al cingalese
«Al deposito, – disse, – e fate fuoco su chi tenta di fuggire.»
Poi rivolgendosi agli altri forzati, aggiunse con un tono che non ammetteva replica:
«Al