Emilio Salgari

La regina dei Caraibi


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nave intanto, malgrado la furia del vento e le ondate tremende che l’assalivano, era entrata audacemente nel porto ed aveva gettate le àncore a centocinquanta metri dalla gettata. Era uno splendido brik, di forme svelte, dalla carena strettissima, dall’alberatura molto alta, un vero legno da corsa. Dieci sabordi, dai quali uscivano le estremità di altrettanti pezzi d’artiglieria, s’aprivano ai suoi fianchi, cinque a babordo e cinque a tribordo e sul cassero si vedevano due grossi pezzi da caccia. Sul corno di poppa, ondeggiava una bandiera nera, con in mezzo un grande V dorato, sormontato da una corona gentilizia. Sul castello di prora, sulla tolda, sulle murate e sull’altissimo cassero, numerosi marinai si tenevano schierati, mentre a poppa alcuni artiglieri stavano puntando i due pezzi di caccia verso il fortino, pronti a scatenare contro le sue mura uragani di ferro.

      Imbrigliate le vele e gettate due altre àncore, una scialuppa venne calata in mare dalla parte di sottovento, dirigendosi subito verso la gettata: la montavano quindici uomini, armati di fucili, di pistole e di sciabole corte e larghe, molto usate dai filibustieri della Tortue.

      Nonostante l’urto incessante delle onde, la scialuppa, abilmente guidata dal suo timoniere, si gettò dietro ad un vecchio vascello spagnuolo che finiva di spezzarsi su di un banco di sabbia e che colla sua mole opponeva una buona barriera all’impeto dei flutti; poi, filando lungo alcune piccole scogliere, giunse felicemente sotto la gettata.

      Mentre alcuni filibustieri, puntando i remi, tenevano ferma la scialuppa, un uomo, salito sulla prora, con uno slancio straordinario, degno d’una tigre, era balzato sulla gettata. Quell’audace che osava, da solo, sbarcare in mezzo ad una città di duemila abitanti pronti a sollevarsi contro di lui ed a trattarlo come una bestia feroce, era un bell’uomo sui trentacinque anni, di statura piuttosto alta e dal portamento distinto, aristocratico.

      I suoi lineamenti erano belli, quantunque la sua pelle fosse d’un pallore cadaverico. Aveva la fronte spaziosa, solcata da una ruga che dava al suo volto un non so che di triste, un bel naso diritto, labbra piccole e rosse come il corallo e gli occhi nerissimi, d’un taglio perfetto e dal lampo fierissimo. Se il volto di quell’uomo aveva un non so che di triste e di funebre, anche il vestito non era più allegro: infatti era vestito di nero da capo a piedi, però con una eleganza piuttosto sconosciuta fra i ruvidi corsari della Tortue. La sua casacca era di seta nera, adorna di pizzi d’egual colore; i calzoni, la larga fascia sostenente la spada, gli stivali e perfino il cappello erano pure neri. Anche la grande piuma che gli scendeva fino sulle spalle era nera, e del pari lo erano le sue armi.

      Quello strano personaggio, appena a terra, si fermò guardando attentamente le case della cittaduzza, le cui finestre erano chiuse, poi si volse verso gli uomini rimasti nella scialuppa e disse:

      «Carmaux, Wan Stiller, Moko! Seguitemi!»

      Moko, un negro di statura gigantesca, un vero ercole, armato d’una scure e d’un paio di pistole, balzò a terra; dietro di lui scesero Carmaux e Wan Stiller due uomini bianchi, entrambi sulla quarantina, piuttosto tarchiati, colla pelle abbronzata, i lineamenti angolosi, duri, resi più arditi da folte barbe: erano armati di moschetti e di corte sciabole e vestiti di semplici camicie di lana ed in calzoni corti che mostravano gambe muscolose, coperte di cicatrici.

      «Eccoci, capitano,» disse il negro.

      «Seguitemi.»

      «E la scialuppa?»

      «Che ritorni a bordo.»

      «Scusate, capitano,» disse uno dei due marinai, «mi pare che non sia prudenza l’avventurarci in così pochi, nel cuore della città!»

      «Avresti paura, Carmaux?» chiese il capitano.

      «Per l’anima dei miei morti!» esclamò Carmaux. «Voi non potete supporre questo, signore. Parlavo per voi.»

      «Il Corsaro Nero non ha mai avuto paura, Carmaux.»

      Si volse verso la scialuppa, gridando agli uomini che la montavano:

      «Tornate a bordo! Direte a Morgan di tenersi sempre pronto a salpare.»

      Quando vide la scialuppa riprendere il largo, lottando contro le onde che si precipitavano, muggendo, attraverso la piccola baia, si volse verso i suoi tre compagni, dicendo:

      «Andiamo a trovare l’amministratore del duca.»

      «Mi permettete una parola, signor cavaliere?» chiese colui che abbiamo udito chiamare Carmaux.

      «Parla e spicciati.»

      «Noi non sappiamo dove abiti quell’eccellente amministratore, capitano.»

      «E che cosa importa? Lo cercheremo.»

      «Non vedo anima viva in questa borgata. Si direbbe che gli abitanti, scorgendo la nostra Folgore, siano stati presi dalla tremarella e abbiano lavorato di gambe.»

      «Ho veduto laggiù un fortino,» rispose il Corsaro Nero. «Se nessuno ci dirà dove potremo trovare l’amministratore, andremo a chiederlo alla guarnigione.»

      «Per le corna di Belzebù!… Andarlo a chiedere alla guarnigione? Non siamo che in quattro, signore.»

      «Ed i dodici cannoni della Folgore, non li conti? Andiamo innanzi a tutto a esplorare queste viuzze. «Non lo credo, capitano.»

      «Armate i moschetti e seguitemi.

      Mentre i suoi marinai ubbidivano, il Corsaro Nero doppiò il mantello nero che teneva su di un braccio, si calò il feltro sugli occhi, poi snudò, con un gesto risoluto, la spada che pendevagli al fianco, dicendo:

      «Avanti, uomini del mare! Io vi guido!

      La notte era calata e l’uragano, anzichè calmarsi, pareva che aumentasse. Il ventaccio s’ingolfava nelle strette viuzze della borgata con mille ululati, cacciando innanzi a sè nembi di polvere, mentre fra le nubi, nere come l’inchiostro, guizzavano lampi abbaglianti seguiti da tremendi scrosci.

      La cittadella pareva sempre deserta. Nessun lume brillava nelle vie e nemmeno attraverso le stuoie che coprivano le finestre.

      Anche le porte erano tutte chiuse e probabilmente sbarrate.

      La notizia che i terribili corsari della Tortue erano sbarcati doveva essersi sparsa fra gli abitanti e tutti si erano affrettati a rinchiudersi nelle proprie case.

      Il Corsaro Nero, dopo una breve esitazione, si cacciò in una via che pareva la più larga della città.

      Di quando in quando delle pietre, smosse dal vento, precipitavano nella via, sfracellandosi, e qualche camino, poco saldo, rovinava, ma i quattro uomini non se ne davano pensiero. Erano già giunti a metà della via, quando il Corsaro s’arrestò bruscamente, gridando:

      «Chi vive?»

      Una forma umana era comparsa sull’angolo di una viuzza e, vedendo quei quattro uomini, si era gettata prontamente dietro un carro di fieno abbandonato in quel luogo.

      «Un’imboscata?» chiese Carmaux, avvicinandosi al capitano.

      «Od una spia?»disse questi.

      «Forse l’avanguardia di qualche drappello di nemici. Io credo, capitano, che abbiate fatto male a cacciarvi in mezzo a queste case in così scarsa compagnia.»

      «Va’ a prendere quell’uomo e conducilo qui.»

      «M’incarico io della faccenda,»disse il negro, impugnando la sua pesantissima scure. Con tre salti attraversò la via e piombò sull’uomo che si era nascosto dietro al carro.

      Afferrarlo pel colletto ed alzarlo, come se fosse un semplice fantoccio, fu l’affare d’un solo momento.

      «Aiuto!… Mi ammazzano!» urlò il disgraziato, dibattendosi disperatamente. Il negro, senza curarsi di quelle grida, lo portò dinanzi al Corsaro, lasciandolo cadere al suolo.

      Era un povero borghese, alquanto attempato, con un gran naso ed una gobba mostruosa piantata fra le due spalle. Quel disgraziato era livido per lo spavento e tremava così forte da temere che da un istante all’altro svenisse.

      «Un gobbo!» esclamò Wan Stiller che l’aveva osservato alla luce d’un lampo. «Ci porterà fortuna!»

      Il