non capisco bene, signor Wan Horn.
– Lo credo: non avete ancora veduto le mie bottiglie entro le quali coltivo quei microscopici animaletti cosí terribili da scatenare la peste, il colera, il tifo ed altre malattie.
– Yanez – disse Sandokan interrompendo – tu credi proprio che la volta non cadrà anche se calcinata dal fuoco?
– Ti ho detto che non vi è alcun pericolo.
– Allora, finché voi discuterete di cose che io, uomo quasi selvaggio, non posso comprendere, vi lascio per recarmi verso la foce del fiume fangoso. Voglio vedere coi miei occhi come vanno le cose laggiú.
«Pare che gli sciacalli di Sindhia si siano fitti in capo di entrare qui malgrado il fuoco delle mitragliatrici. Ah, la vedremo!…»
Chiamò due malesi, prese un’altra torcia e si allontanò rapidamente seguendo la larga banchina, mentre dei colpi di fuoco continuavano a rimbombare verso l’estremità della grand’arcata.
– Dunque vi dicevo – riprese l’olandese, a cui piaceva assai parlare, a quanto pareva, quantunque sia cosa piuttosto rara in un olandese – che io sono riuscito a coltivare una quantità enorme di bacilli, bastanti per distruggere anche cento milioni di persone in pochi giorni.
– Possibile? Sareste voi il fratello del Demonio della guerra? – esclamò il Maharajah.
– No, Altezza – rispose l’olandese, sorridendo. – Conosco già la storia di quel disgraziato inventore.
E poi io non sono un inventore. Non sono che un coltivatore, ma invece di piantare fagiuoli e patate, racchiudo i bacilli piú terribili dentro delle bottiglie che invece di acqua pura contengono un brodo assai nutriente, ottenuto con siero di vitello e di fegato glicerinato.
– È un po’ difficile capirvi, signor Wan Horn. Io non sono uno scienziato.
– Capirete subito, Altezza.
Quantunque verso il fondo della grande cloaca continuassero a rombare le grosse carabine, l’olandese si arrampicò agilmente sull’hauda, aprí una cassa, prese a casaccio qualche cosa e ridiscese con infinite precauzioni.
– Che cos’è questa? – chiese a Yanez.
– Una bottiglia che mi pare piena d’un liquido color dell’ambra, ma che io non vuoterei, ve lo assicuro, dottore.
– No, è un vivaio. Entro questo vetro ho coltivato i bacilli della tubercolosi.
– Ma io non vedo alcun insetto agitarsi dentro quel brodo!
– Come sarebbe possibile? I vostri occhi non sono dei microscopi. Pensate, Altezza, che i bacilli della tubercolosi, per esempio, che hanno la forma di asticciuole rosse, sono cosí piccoli, che mille, messi l’uno dietro l’altro, raggiungono appena la lunghezza d’un millimetro.
Calcolate poi che occorre un milione di quei terribili esseri per coprire solamente un millimetro quadrato.
– Sicché io non posso vederli.
– Nemmeno se possedeste gli occhi delle aquile.
– E quanti ve ne sono rinchiusi in quel vivaio?
– Tanti da poter inoculare la tisi a cento o duecentomila uomini -rispose l’olandese.
– Voi mi spaventate. Se le vostre bottiglie si spezzassero?
– Morremmo tutti ed in poco tempo, perché ho tre vivai di bacilli virgola del colera.
– Mi stupisco come Sandokan vi abbia permesso di portare con voi degli oggetti cosí pericolosi – disse Yanez. – Una disgrazia può sempre avvenire.
– Quale?
– Una palla di cannone potrebbe frantumare la vostra cassa ed allora saremmo noi alle prese col tifo, colla peste, col colera ed altri malanni ancora.
– Speriamo, Altezza, che la palla non giunga fino alle mie preziose bottiglie. Sarebbe per me una perdita incalcolabile.
– Che avreste ben poco tempo per rimpiangere, dottore. Il colera vi prende e vi spazza via in poche ore…
– Anche meno, Altezza. Ho un vivaio che contiene dei bacilli virgola che fulminano l’uomo appena attaccato.
– Signor Wan Horn, rimettete a posto la vostra bottiglia. Una palla potrebbe entrare nella grande cloaca e spezzarvela fra le mani… E dite un po’ – soggiunse Yanez – come vi servireste di questi… chiamiamoli i proiettili della morte sicura?
– Si va a gettare una bottiglia nel campo nemico, la si rompe, e si lascia che i microbi si sviluppino e compiano il loro dovere.
– Ah, dovere lo chiamate!
– Il loro compito, allora. Dopo poche ore ecco il colera dichiarato nel campo, ed ecco gli uomini cadere piú o meno fulminati.
– E chi sarà l’uomo che avrà tanto coraggio da andare a spezzare il vivaio proprio in mezzo ai nemici?
– Ci penso io – rispose l’olandese colla sua solita flemma. – Io sono immune completamente contro tutte le malattie che potrebbero sviluppare le mie care bestioline.
– Sta bene; e vi recherete fra le truppe di Sindhia?
– Sí, Altezza, con due bottiglie ben nascoste in due tasche speciali cucite dentro la mia ampia giacca.
– Non vi fidate di quella gente.
– Sono un europeo; e vedrete, Altezza, come io giuocherò quella gente ed il loro rajah.
– Da solo?
– Da solo – rispose l’olandese. – Ho avvicinato i dayaki che nelle selve del Borneo usano ancora fare raccolte di teste umane, eppure nessuno ha tagliato la mia. Le genti di Sindhia, che sono poi degli assamesi, che io sappia, non sono mai stati tagliatori di zucche umane.
– Dovete aver del fegato, signor Wan Horn – disse Yanez. – Vi vedremo alla prova.
– Quando vorrete, Altezza. Il calore che regna nel Borneo e nell’India si confà assai ai miei microscopici animaletti.
«Se fossi rimasto in Olanda, malgrado le mie cure, sarebbero a quest’ora morti tutti.
«Fa un po’ freddo nel mio paese, e molta umidità vi regna in tutto il tempo dell’anno e…»
Un crepitio di mitragliatrici lo interruppe bruscamente. Si combatteva dunque verso l’ultima arcata della gigantesca cloaca?
Yanez afferrò la carabina che aveva appoggiata contro la parete, e dopo d’aver fatto due o tre passi disse al dottore, che teneva sempre fra le mani la sua pericolosa bottiglia:
– Vado a vedere come stanno le cose: riprenderemo piú tardi la nostra interessante conversazione. Vi consiglio, per ora, di mandare a dormire i vostri bacilli.
E scappò via seguíto da Tremal-Naik e da Kammamuri che si era munito d’una torcia e la roteava continuamente onde ravvivare la fiamma. Tutti e tre, seguiti a breve distanza da una mezza dozzina di malesi i quali, udendo le fucilate non avevan piú potuto trattenersi, si erano slanciati a gran corsa lungo la riva del fiume nero.
Le mitragliatrici stridevano, segno evidente che gli sciacalli di Sindhia, come li chiamava ormai Sandokan, tentavano d’introdursi nella grande cloaca in buon numero.
Dopo una corsa velocissima di dieci e piú minuti, Yanez ed i suoi compagni raggiunsero la Tigre della Malesia.
Le palle sibilavano in aria, scrostando ora le pareti ed ora la grande volta.
Dal di fuori della cloaca della gente sparava all’impazzata, credendo di spaventare col fracasso di cinquecento o mille fucili i pirati di Mompracem. Ah, ci voleva ben altro per quei vecchi guerrieri incanutiti fra il fumo di tante battaglie terrestri e marittime!…
– Dunque, un vero assalto? – chiese Yanez avvicinandosi a Sandokan, il quale scatenava una delle cinque mitragliatrici, seduto su un masso presso il quale ardeva una fiaccola.
– Pare