Emilio Salgari

Le due tigri


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suo viso abbronzato aveva dei riflessi dell’ottone e spiccava vivamente sul vestito bianco, mentre i pendenti che portava agli orecchi gli davano un non so che di grazioso e strano.

      Sandokan respinse la mano che l’indiano gli porgeva e se lo attirò fra le braccia, dicendogli:

      – Qui sul mio petto, valoroso maharatto.

      – Ah! mio signore! – esclamò l’indiano con voce rotta, mentre impallidiva per l’emozione.

      Yanez, piú calmo e meno espansivo, gli diede una vigorosa stretta di mano, dicendo:

      – Questa vale quanto un abbraccio.

      – E Tremal-Naik? – chiese Sandokan, con ansietà.

      – Ah! mio signore! – disse il maharatto, mentre un singhiozzo gli faceva nodo alla gola. – Temo che il mio padrone impazzisca! I maledetti si sono vendicati!

      – Racconterai tutto fra poco, – disse Yanez. – Dove dobbiamo ancorarci?

      – Non gettate l’ancora davanti alla spianata del forte, signor Yanez, – disse il maharatto. – Noi siamo vigilati dai Thugs e quei miserabili devono ignorare il vostro arrivi.

      – Saliremo il fiume fino dove tu vuoi.

      – Al di là dal forte William, dinanzi lo Strand. I miei battellieri s’incaricheranno di guidarvi.

      – Ma quando potremo rivedere Tremal-Naik? – chiese Sandokan con impazienza.

      – Dopo la mezzanotte, quando la città sarà addormentata. Dobbiamo essere prudenti.

      – Posso fidarmi dei tuoi uomini?

      – Sono tutti abili marinai.

      – Falli salire a bordo e affida loro la direzione del praho, poi vieni nella mia cabina. Voglio sapere tutto.

      Il maharatto con un fischio fece accorrere i suoi uomini, scambiò con loro alcune parole, poi seguí Sandokan e Yanez nel salotto di poppa.

      Capitolo II. IL RAPIMENTO DI DARMA

      Se quel praho si presentava splendido al di fuori, nel quadro di poppa lo era ancora di piú e si capiva subito che il suo proprietario non aveva certo lesinate le spese nella costruzione e negli addobbi.

      La saletta entro cui i tre uomini erano entrati, occupava buona parte del quadro. Le sue pareti erano tappezzate di seta rossa cinese con fiori trapunti in filo d’oro e ornate di gruppi d’armi disposte artisticamente: kriss malesi dalla lama serpeggiante e colla punta probabilmente avvelenata col terribile succo dell’upas; kampilang e parang dayachi, dalla lama larga e pesante soprattutto verso la punta; pistole e pistoloni con le canne arabescate ed i calci d’ebano con intarsi di madreperla; carabine indiane con incrostazioni meravigliose e non mancavano nemmeno i vecchi tromboni dalla bocca larghissima usati un tempo dalle bellicose tribú dei bughisi e dei mindanesi.

      Tutto all’intorno correvano dei divani bassi, di seta bianca a fiorami: nel mezzo una tavola di ebano con intarsi di madreperla, in alto una gran lampada di Venezia, con un globo color rosa e già accesa, spandeva una luce dolcissima.

      Yanez prese da una mensola una bottiglia e tre bicchieri, che riempí d’un liquore color del topazio, poi disse al maharatto, che si era seduto presso Sandokan:

      – Ora puoi parlare, senza timore che alcuno oda i nostri discorsi. I Thugs non sono già pesci per sorgere dal fondo del fiume.

      – Se non sono pesci sono diavoli di certo, – rispose il maharatto, con un sospiro.

      – Bevi e sciogli la lingua, mio bravo Kammamuri, – disse Sandokan – la Tigre della Malesia ha lasciato Mompracem per dichiarare la guerra alla Tigre dell’India, ma prima desidero conoscere tutti i particolari del rapimento.

      – Sono ventiquattro giorni signore, che la piccola Darma è stata rapita da emissari mandati da Suyodhana e sono ventiquattro giorni che il mio padrone la piange senza un momento di tregua. Se non fosse giunto il vostro dispaccio che annunciava la vostra partenza da Mompracem, a quest’ora sarebbe certamente impazzito.

      – Temeva che noi non giungessimo in suo aiuto? – chiese Yanez.

      – Sí, per un momento lo ha creduto, supponendovi impegnati in qualche impresa.

      – I pirati della Malesia da qualche tempo dormono e non vi è piú nulla da fare ormai laggiú. I tempi sono mutati e i bei giorni di Labuan e di Sarawak sono ormai lontani.

      – Narra, Kammamuri, – disse Sandokan. – Come fu rapita la piccola Darma?

      – Con un colpo di mano veramente diabolico, che dimostra quale genio infernale abbia Suyodhana.

      Il mio disgraziato padrone, dacché Ada era morta, dando alla luce la piccola Darma, aveva concentrato sulla bambina tutta l’affezione che nutriva verso la moglie e vegliava rigorosamente onde i Thugs non tentassero qualche cosa contro la debole creatura.

      Vaghe voci giunte ai nostri orecchi ci avevano messo in guardia sulle mire dei settari di Kalí. Si diceva che i Thugs, dopo essersi per qualche tempo dispersi onde sfuggire alle giuste rappresaglie dei cipayes del capitano Macpherson, erano tornati ad abitare le immense caverne che si estendono sotto l’isola di Rajmangal e che Suyodhana pensava a procurarsi un’altra «Vergine della pagoda».

      Quelle voci avevano gettato un vivo turbamento nel cuore del mio padrone. Egli temeva che quei miserabili, che già per tanti anni avevano tenuto prigioniera sua moglie, adorandola come la rappresentante della dea Kalí sulla terra, tramassero per rapirgli la figlia.

      I suoi timori, pur troppo, dovevano avere una terribile e dolorosa conferma.

      Conoscendo le astuzie e l’audacia dei Thugs, avevamo prese grandi precauzioni onde non potessero giungere nella stanza della piccina.

      Avevamo fatto mettere delle sbarre di ferro alle sue finestre, corazzare la porta, visitare minutamente le pareti per timore che esistesse qualche passaggio segreto, come ve ne sono tanti negli antichi palazzi indiani.

      Per di piú io dormivo nel corridoio che conduceva alla stanza, assieme alla tigre addomesticata ed a Punthy, il feroce cane nero, animali che come sapete, i Thugs conoscevano.

      Passammo sei mesi fra continue ansie e continue vigilanze, senza però che i Thugs dessero segno di vita.

      Un mattino Tremal-Naik ricevette un dispaccio da Chandernagor firmato da un suo amico, un piccolo rajah spodestato, compromesso nell’ultima insurrezione che aveva trovato sicuro asilo nella piccola colonia francese.

      – Che cosa diceva quel dispaccio?– chiesero ad una voce Yanez e Sandokan, che non perdevano una sola parola del maharatto.

      – Non conteneva che quattro sole parole: «Vieni, urgemi parlarti. Mucdar.»

      Il mio padrone, che si era stretto di profonda amicizia con quell’ex principotto da cui aveva ricevuto non pochi favori quando noi tornammo in India, credendolo minacciato dalle autorità inglesi, partí senza indugio dopo avermi raccomandato di vigilare sulla piccola Darma.

      Durante il giorno nulla accadde che potesse mettermi in sospetto, sul colpo che forse dal lungo meditavano i settari di Kalí, per avere la figlia della loro «ex-Vergine della pagoda».

      Era già giunta la sera, quando ricevetti anch’io un telegramma da Chandernagor e che portava la firma del mio padrone.

      Mi rammento ancora parola per parola ciò che diceva:

      «Parti immediatamente con Darma, la quale corre un grave pericolo da parte dei nostri nemici.»

      Spaventato assai, mi recai alla stazione senza perdere un solo minuto assieme alla piccola Darma e alla sua nutrice.

      Il dispaccio mi era giunto alle 6 e 34, e un treno partiva per Chandernagor e Houghy alle 7 e 28.

      Salii in uno scompartimento che era vuoto, ma alcuni istanti prima che il treno partisse, due bramini salirono pure, sedendosi di fronte a me.

      Erano due personaggi dalle lunghe barbe bianche, dall’aspetto grave ed imponente, che avrebbe rassicurato l’uomo