tip. Bernardoni di C. Rebeschini e C., 1889; pp. 51-58.
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Come si accorda quello che il Tommaseo scrisse de' Promessi Sposi nelle sue lettere al Vieusseux con quello che stampò nell'Antologia? È un repentino voltafaccia: non si può chiamare con altro nome. Il Barbi si domanda: «Ma è stato preso proprio pel suo verso quell'articolo? Ne dubito. Occorre, a intenderlo bene, una ricerca psicologica sul Tommaseo uomo e scrittore, e storica sull'ambiente, e dimenticare l'impressione che fa oggi generalmente il romanzo… E non può essere, che dove il Tommaseo tocca d'alcuni difetti, avesse in animo d'attenuarli e giustificarli, e che l'intendimento apologetico non appaia chiaro, o perchè così ha voluto l'autore, o per mancanza di quei nessi logici e formali che egli era solito trascurare? Avrebbe così ottenuto effetto contrario a quel che si proponeva; ma, si sa, altro è scrivere, altro riuscire a farsi intendere!» Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non mi persuade. Leggendo le postille e l'articolo si vede che a ogni istante la viva e sincera ammirazione del Tommaseo per i Promessi Sposi è come troncata dagli occulti paragoni ch'egli fa inconsapevolmente tra il Manzoni e sè stesso; e appunto quel continuo guardare a sè stesso gli svia il giudizio. Mentre riconosceva che il grande Poeta aveva «divinizzata la lirica, ricreata la tragedia, insegnata agl'Italiani la vera via della storia», e che in tutti questi campi gli era superiore; ho il convincimento che come romanziere ritenesse di stargli alla pari e anche di sorpassarlo. In fin de' conti che cosa significano le sue tante censure e correzioni ai Promessi Sposi? Significano: Avrei fatto meglio io!
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Del Romanzo in generale e dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni discorsi due—Quinta edizione, Urbino, coi tipi della V. Capp. del SS. Sacram. per Giuseppe Rondini, 1846; in-16º. di pp. VIII-142.
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Del Romanzo in generale e dei Promessi Sposi, romanzo di Manzoni, discorsi due. Sesta edizione, accresciuta d'altri scritti. In Venezia, nella Tip. Emiliana, MDCCCXL; in-16.º di pp. VI-236.
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Trovò un difensore anche in Giuseppe Bianchetti di Treviso. Cfr. Sopra i Romanzi storici [lettera] Al barone cav. Ferdinando Porro, Milano; in Giornale sulle scienze e lettere delle Provincie Venete, n.º 107-108 del vol VI della Continuazione, bimestre di settembre e ottobre 1830. Fu ristampata a pp. 71-114 dei Discorsi critici intorno alla questione se giovi di ammettere o no nella letteratura italiana il Romanzo storico, Treviso, coi tipi di Gio. Paluello del fu Antonio, mdcccxxxii; in-16.º ed a pp. 503-522 del libro: Dei lettori e dei parlatori, saggi due di Giuseppe Bianchetti —Alcune lettere di lui medesimo, Firenze, Felice Le Monnier, 1858; in-16.º
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Indicatore Genovese, n. 5, 6 e 7, giugno 1828. Cfr. Mazzini G., Scritti editi ed inediti [quarta edizione], volume II, Letteratura vol I, pp. 41-51.
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Tommaseo N., Studi critici, Venezia, Andruzzi, I, 290.
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E altrove: «Vogliamo almeno terminare con un voto, che è certo comune a tutta l'Italia. Perchè il Manzoni, così grande poeta, non ha intramesso alla sua prosa alcun verso? Perchè non ha egli seguito l'esempio del suo Goethe e di tanti altri illustri romanzieri, che ne aggiunsero questo diletto? La materia di frequente si prestava volentieri alla poesia… Chi non vorrebbe ascoltare il divoto cantico e le laudi dei valligiani che s'affollano con santa allegrezza incontro al Cardinal Federigo? Chi non intenderebbe un orecchio bramoso alle giulive canzoni di guerra dei soldati che vanno all'impresa di Mantova? Tutti ricordavano il sublime canto per la battaglia di Maclodio, tutti aspettavano rinnovata quella robusta armonia. Nè mancherà, in ispecie fra coloro che più strettamente appartengono alla scuola romantica, chi si dolga di non sentire espressa la canzonaccia de' monatti, che viene appena accennata».
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Fin dal 1890 ne dette un saggio il prof. Emilio Teza [Postille inedite di N. Tommaseo ai «Promessi Sposi»; nella Nuova Antologia, serie III, vol XXVII, pp. 560-566]; poi, nel 1897, vennero stampate per intiero da Giuseppe Rigutini. Cfr. Postille inedite di Niccolò Tommaseo, precedute da un discorso critico e accompagnate da osservazioni, Firenze, R. Bemporad & figlio, 1897; in-16º. di pp. VIII-332.
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Eccone un saggio: «È affettato – Pesante – È da buffone: tuono che Fautore assume talvolta – È brutto – È duro – Non mi piace – Miseria – Piccolezza – Cattivo – Inezia – Importuno – Non va – Quanta roba! – È goffo – Mal detto – Pedantesco – Affettazione – Pare un goffo dialogo di Goldoni – Rettoricume – Bassezza – Evviva i soliloqui! – È vecchiume – È un guazzabuglio questo periodo – Malissimo detto – Inezia grande – Lungherie misere – Falso – È ridicolo – È da retore e mostra la stanchezza dell'autore – Affettato e prolisso – Gretto e stracco»; e giù di questo tono, con mano sempre prodiga.
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I critici si trovarono concordi nel biasimare il Manzoni d'avere scelto a protagonisti due operai; all'infuori però del Sismondi, del Pezzi, del Giannone e di pochi altri, tra' quali Giovita Scalvini, che scrisse: «Ha scelto Renzo e Lucia per isvergognare e ridurre al niente i Rodrighi e gli Egidii; per additarne come l'occhio di Dio, dinanzi il quale cessa ogni disuguaglianza, sappia scernere infra la turba gl'ignobili e spregevoli che in lui bene confidano, e la sua mano sollevarli sulla malvagità illustre e tremenda… Vuolsi dunque considerare Renzo e Lucia come un simbolo di tutti i deboli, di tutti quelli che soffrono, e ai quali la giustizia è dovuta… Che se a qualcuno e' paiono troppo piccioli, perch'ei sia curante dei loro umili casi, pensi che a lui per l'appunto il Manzoni li propone in esempio; affinchè corregga il suo orgoglio; nè da loro rivolga indifferente gli sguardi, senza dirizzarli verso Colui che li ha posti sulla terra, ascolta le loro imprecazioni, e non li lascerà cadere: chi non può stare con loro, come prossimo, se ne faccia scala a sani pensieri fuori e più alti di loro».
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Nel dar conto nell'Antologia [n. 93, settembre 1828, pp. 120-132] d'un mediocrissimo romanzo francese: Gertrude, par mad. Hortense Allart de Thèrase, Florence, Ciardetti, 1827, scriveva: «Tutto ciò ch'è grande, è difficile: e però quant'è più l'altezza a cui si tende, più frequente è il pericolo della caduta. Troppo insistere sulla storia dell'uomo interiore, può generare facilmente sazietà e noia; può torre al poeta la forza e lo spazio di rappresentare i segni e gli effetti della passione; può renderlo affettatamente minuzioso ed ardito a spacciare de' fatti dell'anima passionata, i risultati o della fredda meditazione, o d'un'esperienza angusta, immatura. La maggior difficoltà sta nel cogliere appunto la reale gradazione dell'affetto; e mostrando il passaggio dell'anima dall'un grado all'altro, esser vero. Questa difficoltà non mi par superata in un de' tratti più mirabili de' Promessi Sposi; la conversione dell'Innominato. Le disposizioni di quell'anima annoiata del male, i primi tocchi della pietà ch'è, già per sè medesima un cambiamento in quel cuore ferreo, la confusione che lo assale alla vista della sua vittima, tutto è fin qui sovranamente côlto, è quasi tutto con egual potenza indicato. Ma quando siamo alla notte, i sentimenti di rabbia, di disperazione, d'orgoglio che l'assalgono con tanta furia di quanta è capace un'anima ancora verde nel delitto, non mi paiono direttamente condurre a un così prossimo cambiamento. Un carattere come l'Innominato, e non cangiato ancora, non ricevere alcuna impressione di sdegno, d'orgoglio da quel suo passaggio in mezzo alla folla meravigliata e sospettosa, non mi par verisimile. La storia dice che l'Innominato, dopo avuto un colloquio col Borromeo, cangiò vita: ma non dice, parmi, che l'Innominato sia ito a cercare la presenza del vescovo, in mezzo alla moltitudine radunata, in un giorno ch'era giorno di festa per tutto il dintorno. Egli scende tatto irritato di quella gioia comune, scende non per altro che per saperne il motivo, e va difilato a cercare dell'arcivescovo di Milano. Forse il passo parrebbe men brusco, se l'A. avesse dipinti i sentimenti che, cammin facendo, agitavano quell'anima umiliata. Ma umiliarla conveniva dapprima, umiliarla agli occhi suoi propri; giacchè la stanchezza del male non genera che maggior perversità, quando