Oreste Maria Petrillo

Una Linea Sottile


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che mi aspetto da parte del dott. Fazio.

      È giunto il momento di porre fine alla discussione prima che degenerasse nuovamente. <<Va bene signori. Si è fatto tardi ed è l'ora di far rientro a casa. Vi chiamerò nei prossimi giorni per notiziarvi riguardo i futuri sviluppi e circa le mie decisioni>>.

      In realtà la storia mi appassiona già!

      Faccio un saluto generale e mi avvio alla macchina per il ritorno a casa.

      Dopo due giorni ho già accettato l'incarico e mi preparo per l'appuntamento del venerdì successivo.

      Capitolo 5

      Lo straniero

      (Ferrari)

      La mattina, come di consueto prima di un appuntamento importante, mi alleno. Tiro di boxe al sacco e ho la mia seduta con i pesi.

      Indosso, per l'occasione, il mio abito migliore. Voglio fare colpo sull'avvocato inglese, del resto l'Inghilterra mi ha sempre affascinato così come la sua cultura.

      Ricordo quando, molto giovane, soggiornavo da amici dei miei genitori a Cambridge. Il mio primo viaggio in Inghilterra fu una sorpresa: pensavo di recarmi in un paese ostile, freddo di clima e di persone e in cui non mi sarei divertito, invece, le mie impressioni furono ben altre... avevo conosciuto persone educatissime, rispettose e serie e avevo visto con i miei occhi che il sistema anglosassone funzionava per tutto, dal primo lavoro, all'acquisto di una casa. Lo stato non lasciava mai il cittadino, ex suddito, da solo. Visitai anche numerosi college e l'università di giurisprudenza nonché quella di criminologia. Ne rimasi colpito.

      Quando tornai in Italia il mio primo pensiero fu un paragone ingiusto con le nostre strutture. Ho iniziato a studiare legge un po' per tradizione familiare, un po' per passione, ma soprattutto perché attirato dalla figura americana dell'avvocato, persona ammaliante e molto rispettata. La realtà italiana mi avrebbe presentato ben altre sorprese! Una cosa certa che desideravo avere dai miei studi era di non farmi fregare da nessuno nella vita. Illuso. Già nei banchi universitari vi era chi rubava gli esami e chi i cellulari. Constatai con amarezza che avrei dovuto, innanzitutto e subito, difendermi dai miei colleghi. Fu così che abbandonai le lezioni da corsista e studiai per lo più a distanza, recandomi in facoltà poche volte e per gli esami.

      Ma torniamo ad oggi. Si sta facendo tardi e devo sbrigarmi. Come al solito, mi alzo in anticipo e arrivo in ritardo. Questa volta, però, non posso fare brutta figura, devo essere puntuale. Entro in auto per combattere col traffico cittadino che di inglese ha solo la guida a destra sempre in fase di sorpasso nella corsia che dovrebbe essere quella "lenta".

      Napoli è una città bellissima ma incoerente. Si atteggia a metropoli avanzata ma, in essa, convivono scene di illegalità divenute ormai consuetudine. Quando mi affaccio dal balcone dello studio posso osservare la fiera di personaggi che caratterizzano questo poliedrico angolo di mondo. Capaci di grosse bellezze ma anche di enormi nefandezze. Trovi il parcheggiatore abusivo e a lato il vigile urbano. Trovi il poliziotto di quartiere e gli storici "giocatori delle tre carte". Insomma, dove mi trovo ad esercitare è un mondo in cui ci si può imbattere in clienti di ogni genere. Non credo che un inglese possa mai abituarsi a questo modo di vivere.

      Arrivo puntuale all'albergo, Excelsior, uno splendido albergo a 5 stelle plus situato sul lungomare. Si tratta bene l'inglese!

      Mi annuncio alla receptionist che mi introduce nella sala riunioni appositamente noleggiata e preparata con un rinfresco per l'occasione. Mi accomodo sulla sedia di fronte all'ingresso principale per notare chiunque entri e aspetto. Dopo circa 10 minuti arriva.

      Devo dire che la prima impressione non è molto positiva.

      Indossa un elegante abito blu notte in perfetto stile inglese con gilet e soprabito attillati e cravatta perfettamente intonata. Scarpe lucidissime di cuoio nero. Quello che mi colpisce è, però, il suo sguardo: altezzoso, superbo e compiaciuto. Sembra guardare il mondo dall'alto in basso, quello che Paul Ekman definisce come “sguardo da disprezzo sociale”: labbra lievemente serrate e naso leggermente arricciato. Può darsi che mi sbaglio ma, se è guerra che cerca, può esserne certo, ne troverà più di quanto a lui necessita. Mi alzo e vado a stringergli la mano.

      Capitolo 6

      Il ritorno

      (Tancredi)

      Non è stato il glorioso rimpatrio che sognavo.

      Di certo non quello che sette anni fa, valigia alla mano, mi ero ripromesso avrei fatto nel caso fossi mai tornato a calcare il suolo di questa città. Motivi per andarsene ce n’erano anche troppi e del resto, ad eccezione della mia famiglia, non credo che nessuno abbia sentito la mia mancanza in tutto questo tempo. Non ricordo fazzoletti bagnati o amici dispiaciuti all’aeroporto il giorno in cui presi il volo. Le mie ragioni non erano migliori di quelle di tanti altri.

      Erano soltanto alimentate da un odio feroce.

      L’odio che si riserva nel realizzare che non ci sono speranze o opportunità ad attenderti l’indomani. L’odio che si porta verso tutto ciò che uccide i tuoi sogni.

      Raccolgo pigramente il bagaglio e mi dirigo verso l’uscita passeggeri di Capodichino. Un breve sguardo d’assieme mi conferma che l’estetica dell’area aeroportuale è cambiata rispetto all’ultima volta. Esco dalle scorrevoli dell’uscita e mi dirigo verso una piccola area stradale a forma di cuneo che qualcuno, con una fantasia tutta partenopea, ha ribattezzato come “Stazionamento Taxi”. Non appena mi avvicino al primo disponibile si scatena una piccola baruffa tra vari autisti desiderosi di intascare la tariffa di trasporto. La cosa più vicina ad un salasso che questa città possa riservare. La rissa termina con un vincitore: un uomo nerboruto in canottiera che letteralmente opera un sequestro di persona.

      Io e la valigia veniamo sollevati di peso e messi sul sedile posteriore dell’abitacolo per partire a tutta birra prima che qualcuno dei colleghi tassisti possa accampare ulteriori proteste.

      <<Allora dottò dove la porto?>>, gracchia l’omone.

      Sorrido a denti stretti. La lingua napoletana ha sempre avuto un fascino molto particolare, non tanto per il dialetto in sé quanto per il folclore evocativo che trasmette. In questa città infatti qualunque sconosciuto ti si avvicini con una cravatta è per antonomasia un dottore. Poco importa se chi ti parla è l’ultimo dei ciabattini. Resta comunque un dottore. Una specie di laurea honoris causa concessa sul campo.

      <<Mi porti all’hotel Excelsior>>, rispondo. “Vivo possibilmente”, sto per aggiungere.

      L’autista infatti, sprezzante del pericolo, imbocca la circumvallazione esterna ad una velocità che qualche pavido villico definirebbe criminale. Ormai è da tempo che in questa metropoli il codice della strada ha assunto un valore sempre più blando fino a sfumare in un vero e proprio catalogo di suggerimenti.

      In breve si è passati dall’ordine imperativo al consiglio facoltativo. Il risultato di questa evoluzione sociale è l’aver dato vita ad una specie di complotto geografico per uccidersi a vicenda non appena si mette il culo su un auto.

      Venti minuti dopo, ancora vivo, ma con il tassista che avrà collezionato una decina di accuse di tentato omicidio, arrivo a mettere piede nell’albergo. Il sole è alto e la mattina molto afosa. Mi ero disabituato ad un clima così mite. Prima di entrare nella hall mi giro un istante a vedere il mare a pochi metri dall’albergo. Un attimo che sembra eterno a rimirare la migliaia di scintille del sole che si riflettono sull’acqua. Un attimo a ricordare tutto quello che mi è mancato.

      L’appuntamento con l’avvocato della Salus è stato fissato qui per mia fortuna così ho tutto il tempo per salire sopra e cambiarmi.

      La suite è magnifica e talmente tirata a lucido che potrei specchiarmi nelle pareti. Non ho molto tempo prima del meeting, quindi mi fiondo sotto la doccia e tiro fuori dal bagaglio il mio magnifico doppiopetto