Marco Fogliani

Scherzi Del Diavolo


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tutti i miei scrupoli e le mie perplessità.

      “Bisogna puntare di più sul marchio, sul fatto che i prodotti sono made in Italy; ed abbassare drasticamente i costi, magari anche un po' a scapito della qualità: perché fatto in Italia vuol dire semplicemente sul territorio italiano, ma non necessariamente da artigiani italiani”, sosteneva. Anche da cinesi andava bene lo stesso, parola di avvocato. E se poi ci fossero stati problemi per la qualità più scadente, lui era lì apposta per curare gli aspetti legali.

      Il suo modo di pensare si era rivelato vincente, ed io quella sera stessa, per gratitudine e per premiarlo, al momento del brindisi gli avevo anche proposto di diventare mio socio.

      Eravamo da poco usciti dal ristorante, con in corpo l'euforia di quasi una bottiglia di spumante in due. Sarei tornato a piedi, il ristorante l'avevo scelto vicino a casa: lo conoscevo e si mangiava bene. Accompagnai il Laurenzi alla macchina.

      “Mi raccomando, sii prudente, Ci vediamo domani”.

      I fumi e l'euforia dell'alcool e del successo avevano un po' offuscato la mia coscienza, che aveva fatto sentire con forza la sua voce fino al momento della firma del contratto ed all'incasso dell'assegno. Mio padre non avrebbe approvato quello che avevo fatto. “Quando prepari un vestito, mettiti nei panni di chi lo indosserà”, era solito dire. E mio nonno: “l'onestà prima di tutto”, anche se non si può dire che avessi tenuto un comportamento disonesto: perché “disonesto è solo ciò che va contro la legge”, sosteneva a ragione l'avvocato Laurenzi. Ma quelli di mio padre erano altri tempi: tempi in cui si andava all'inferno per le brutte azioni e dopo morti, non già da vivi per mancanza di denaro e di lavoro.

      Forse pensavo a questo quando i miei occhi, alleati con l'oscurità, mi fecero un brutto scherzo. Per terra, dall'altro lato della strada, più avanti … non erano neanche in direzione di casa mia … c'erano due o tre … Ma cos'erano? Non vedevo chiaramente cosa fossero. Decisi di avvicinarmi. Attraversai, non tanto per sapere cosa fossero, quanto per capire fino a che punto un po' d'alcool potesse prendersi gioco della mia vista.

      Adesso sì, era più chiaro. Una moto, o meglio uno scooter sdraiato per terra; poco oltre una persona, pure lei giù lunga, probabilmente il guidatore, sotto quel che restava di una panchina in pietra. E poi ancora più in là qualcos'altro, forse una borsa o un bagaglio, e un casco.

      Normalmente, chissà, così al buio forse sarei stato alla larga, o al massimo avrei chiamato la polizia o un'ambulanza. E invece mi avvicinai. Non ero né un fifone né un disonesto. (Ma a chi volevo dimostrarlo? Forse a mio nonno o a mio padre?) Anzi, ero una persona retta e con un gran senso civico, per cui mi avvicinai a vedere se quella persona stesse bene.

      “È tutto a posto?”, gli chiesi. Chiaramente no. Quella macchia scura sotto di lui sembrava sangue … o forse era olio della moto? Ma da come mi parlò rantolando, no, non era affatto tutto a posto.

      “Ti prego, aiutami”.

      Col cellulare chiamai subito il numero di emergenza. Non fu facile, col buio e con l'alcool. Una volta riattaccato mi vennero tanti dubbi: l'indirizzo che avevo indicato era quello giusto? Ero riuscito a farmi capire?

      “La gamba … mi fa male. Ho la gamba bloccata … e rotta. Aiutami.”

      Feci del mio meglio per sollevare e spostare quel peso. Non so, in quelle condizioni, come ci riuscii, soprattutto a vincere l'impressione del sangue: devo essere stato aiutato da qualche forza sovrannaturale. Forse lo ammaccai ulteriormente durante l'operazione, quando lui emise quel grido di dolore: ma alla fine la sua gamba fu ibera.

      “Adesso arriverà l'ambulanza, spero”, cercai di consolarlo.

      “Grazie”, mi rispose, mentre a fatica si era tirato su seduto per terra. “La borsa … la borsa, per favore”.

      Andai a prendere la borsa. Anzi, le borse, perché ce n'erano due, piuttosto grosse. Nel dubbio, e a fatica, gliele portai tutte e due, insieme.

      “È questa”. Cercò di aprirla con una mano sola, ma non ci riuscì.

      “Aspetta, lascia che ti aiuti.” Seppure con difficoltà, riuscii ad aprirgliela.

      “Vuoi che avvisi qualcuno? Hai moglie, una famiglia?”

      “No, no”, rispose mentre frugava nella borsa. “Piuttosto avvicinati e fammi luce, se puoi.”

      Puntai la luce del mio cellulare dentro la borsa mentre lui cercava. Alla fine trovò e prese in mano quello che voleva. Era una cosa piccola e massiccia, di metallo. Mi sembrava un grosso accendino. Io ero già vicino a lui, e ciononostante mi fece cenno con l'altra mano di avvicinarmi. Fece come per porgermelo.

      BUUM!

      Maledizione. Non era un accendino, era una pistola. E cosa ne potevo sapere io? Non ne avevo mai vista una dal vero, solo nei film e nei fumetti. Avrei avuto tutto il tempo di scappare, di togliergliela, in mille modi. Con un calcio, con le mani, lui era lì a terra con una gamba rotta. Ma … come potevo sospettare? Il rumore mi riempì la testa, ed il dolore il corpo; anzi, me lo svuotò.

      Razza di un Giuda che non sei altro! Io mi sono fermato, ti ho aiutato, e tu in questo modo mi ricompensi? Una volta tanto che ho fatto davvero una buona azione, coraggiosa, da essere fiero di me stesso. Anche mio padre e mio nonno lo sarebbero stati. E guarda che fine da pollo vado a fare. Spero solo che esista l'inferno, e che tu ci vada dritto dritto al più presto, con la tua gamba rotta, e non ne esca più. Tanto non è detto che vivrai per molto, nelle tue condizioni; e se vivrai, ti perseguiterò col mio odio come potrò. Spero che tu muoia presto nel dolore, ma per favore non voglio incontrarti di nuovo all'altro mondo. Tu meriti l'inferno, e spero tanto che esista; io no di certo.

      Avevo chiamato io stesso i soccorsi qualche minuto prima, pensai. Chissà quanto ci metteranno ad arrivare, e se arriveranno in tempo, per me.

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