quella era la stanza più calda della casa, per cui l’ammalato, durante l’inverno, non l’abbandonava mai. Nelle lunghe sere invernali, in quella stanza, il poeta sosteneva il gottoso ed il gottoso confortava il poeta. La somiglianza di tale rapporto con quello dello zoppo e del cieco è evidente.
Per un caso singolare i due vecchi ch’erano stati sempre poveri, non ebbero a sopportare delle grandi sofferenze durante la guerra che fu tanto dura a tutti i Triestini. I loro disagi furono diminuiti da una grande simpatia che Mario seppe ispirare ad uno slavo del contado e che si manifestò in doni di frutta, uova e pollame. Si vede da questo successo del letterato italiano che mai ne aveva avuti altri, che la nostra letteratura prospera meglio all’estero che da noi. Peccato che Mario non seppe apprezzare quel successo che altrimenti gli avrebbe fatto bene. Accettava e mangiava volentieri i doni, ma gli pareva che la generosità del contadino fosse dovuta alla sua ignoranza e che il successo con gli ignoranti spesso si chiama truffa. Si sentiva perciò pesare il cuore, e per difendere il buon umore e l’appetito ricorse alla favola: Ad un uccellino furono offerti dei pezzi di pane troppo grandi per il suo beccuccio. Con piccolo resultato l’uccellino s’accanì per vari giorni intorno alla preda. Fu ancora peggio quando il pane indurì, perché allora l’uccellino dovette rinunciare al ristoro offertogli. Volò via pensando: L’ignoranza del benefattore è la sventura del beneficato.
Solo la morale della favola s’adattava esattamente al caso del contadino. Il resto era stato alterato tanto bene dall’ispirazione, che il contadino non vi si sarebbe ravvisato, e questo era lo scopo principale della favola. C’era stato lo sfogo e non andava a colpire il contadino, proprio come non lo meritava. Perciò studiandola si scopre nella favola una manifestazione di riconoscenza, benché non forte.
I due fratelli vivevano con rigida regolarità. Non sconvolse le loro abitudini neppure la guerra che disordinò tutto il resto del mondo. Giulio lottava da anni e con buon successo contro la gotta che gli minacciava il cuore. Andando a letto di buon’ora, e contando i bocconi che si concedeva, il vecchio, di buon umore, diceva: «Vorrei sapere se, tenendomi vivo, truffo la vita o la morte». Non era un letterato costui, ma si vede che, ripetendo ogni giorno le stesse azioni, si finisce con lo spremerne tutto lo spirito che ne può scaturire. Perciò all’uomo comune non è mai raccomandata abbastanza la vita regolata.
Giulio, d’inverno, si coricava proprio col sole, e d’estate molto prima di esso. Nel letto caldo le sue sofferenze s’attenuavano ed egli lo abbandonava ogni giorno per alcune ore, unicamente per conformarsi al volere del medico. La cena era servita accanto al suo letto, e i due fratelli la prendevano insieme. Era condita da un grande affetto, l’affetto ereditato dalla loro prima giovinezza. Mario era per Giulio sempre molto giovine, e Giulio per Mario il vecchio che avrebbe saputo consigliarlo in ogni evenienza. Giulio non s’accorgeva quanto Mario gli andasse somigliando nella prudenza e nella lentezza, come se avesse avuto la gotta anche lui, e Mario non vedeva che il vecchio fratello ormai non poteva dargli consigli, non avrebbe mai detto cosa che non fosse stata spiata dal suo proprio desiderio. Era anche giusto: non si trattava di consigliare o d’ammonire; bisognava sostenere e incoraggiare. Ciò riusciva anche più facile a un gottoso, per quanto non sembri. E quando Mario concludeva l’esposizione di una sua idea, di una sua speranza o intenzione con le parole: «Ti pare?» a Giulio assolutamente pareva, e consentiva convinto. Perciò per ambedue la letteratura era una bonissima cosa, e la parca cena era migliore, condita da un mite affetto sicuro, che escludeva qualsiasi dissenso.
Un piccolo dissenso ci fu tra i due fratelli per quei benedetti uccellini che si portavano via una parte del loro pane. «Potresti salvare la vita ad un Cristiano con quel pane,» osservò Giulio. E Mario: «Ma sono più di cinquanta gli uccellini che con quel pane rendo felici». Giulio fu subito e per sempre d’accordo.
Quando la cena era finita, Giulio si copriva la testa, le orecchie e le guancie col berretto da notte, e Mario per una mezz’oretta gli leggeva qualche romanzo. Al suono della dolce voce fraterna, Giulio si quietava, il suo cuore affaticato assumeva un ritmo più regolare, e il suo polmone s’allargava. Il sonno allora non era più lontano e, infatti, presto il suo respiro si faceva più rumoroso. Allora Mario affievoliva gradatamente la voce finché arrivava senza soluzione di continuità al silenzio; poi, dopo di aver smorzata la luce, s’allontanava sulle punta dei piedi.
La letteratura era perciò una buona cosa anche per Giulio, ma una sua forma, la critica, lo danneggiava e minacciava la sua salute. Troppo spesso Mario interrompeva la lettura per mettersi a discutere violentemente il valore del romanzo che leggeva. La critica sua era la grande critica dell’autore disgraziato. Era dessa il suo grande riposo, agitato solo in apparenza, il sogno più splendido. Ma aveva lo svantaggio d’impedire il sonno altrui. Scoppii di voce, suoni di disprezzo, discussioni con interlocutori assenti, tanti strumenti musicali varii che s’alternavano, e impedivano il sonno. Eppoi Giulio anche per cortesia doveva badare di non addormentarsi, quando ad ogni tratto gli si domandava il suo parere. Doveva dire:«Anche a me pare». Era tanto abituato a tali parole che per sillabarle gli sarebbe bastato di lasciar passare il suo fiato sulle labbra. Ma chi russa non sa fare neppur questo.
Una sera il furbo malato che pareva tanto innocente in quel suo berretto abbondante, ebbe una trovata. Con voce turbata (forse perché temeva di essere indovinato) domandò a Mario di leggergli il suo romanzo. Mario si sentì affluire più caldo il sangue al cuore. «Ma tu già lo conosci,» obiettò mentre subito s’accinse ad aprire il libro che non era mai lontano da lui. L’altro rispose che da lunghi anni non l’aveva più letto e che sentiva proprio il desiderio di riudirlo.
Con voce dolce, mite, musicale, Mario iniziò la lettura del suo romanzo Una giovinezza, accompagnata dal vivo consenso di Giulio che incominciava ad abbandonarsi al riposo, mormorando: «Bello, magnifico, benissimo,» ciò che rendeva la voce di Mario vieppiù calda e commossa.
Anche per Mario fu una sorpresa. Non aveva letto mai roba propria ad alta voce. Come diventava più significativa ravvivata dal suono, dal ritmo e anche dalle pause accorte e dal saggio acceleramento. I musicisti – beati loro! – hanno degli esecutori che non fanno altro che studiare il modo di regalare loro grazia ed efficacia. Degli scrittori il lettore frettoloso non mormora neppure la parola e passa da segno a segno come un viandante in ritardo su una via piana. “Come scrissi bene!” pensò Mario ammirando. Aveva letto tutt’altrimenti la prosa degli altri e, nel confronto, la sua brillava.
Dopo poche pagine il respiro di Giulio rantolò: era il segno che il suo polmone veniva privato della guida cosciente. Mario, ritiratosi nella propria stanza, non seppe staccarsi dal romanzo che lesse ad alta voce per buona parte della notte. Era stata una vera nuova pubblicazione quella. Aveva scosso l’aria ed era andata al suo cervello ed a quello degli altri per l’orecchio, l’organo nostro più intimo. E Mario sentì che la sua idea ritornava a lui nuova, abbellita, e arrivava al suo cuore per nuove vie ch’essa creava. Quale nuova speranza!
E il giorno appresso nacque la favola dal titolo: Il successo sorprendente. Eccola: «Un ricco signore disponeva di molto pane e si divertiva a sminuzzarlo agli uccellini. Ma del dono approfittava una diecina o poco più di passeri, sempre gli stessi, e buona parte del pane ammuffiva all’aria. Il povero signore ne soffriva, perché nulla è tanto disgustoso come veder poco gradito un proprio dono. Ma ebbe allora la ventura di ammalare, e gli uccellini che non trovarono più il pane cui erano usi, cinguettarono dappertutto: “Il pane che c’era sempre non c’è più, ed è un’ingiustizia, un tradimento”. Allora una moltitudine di passeri si recò a quel posto ad ammirare la provvidenza che aveva cessato di manifestarvisi, e quando il benefattore risanò, non ebbe pane abbastanza per saziare tutti i suoi ospiti».
È difficile di conoscere le origini di una favola. Il titolo solo rivela che questa dev’essere nata nella stanza dell’ammalato ove Mario aveva trovato il suo successo. Chi conosce le vie per cui si muove l’ispirazione, non si meraviglierà che dal successo tanto semplice avuto da Mario col fratello, si sia saltati a quel successo del buon diavolo della favola, che aveva avuto bisogno di ammalare per arrivarci. Non intenderà donde sieno venuti quegli uccellini tanto maliziosi che sapevano piangere in pubblico ma, per avarizia, tenevano celata ai compagni la loro buona fortuna, a meno non si supponga, ciò ch’è un po’ difficile, che il poeta, quando scrive, sia chiaroveggente, e che nel proprio successo Mario abbia intuita la malizia di Giulio. Invece bisogna