Giovanni Verga

Eva


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esclamò con sinistro entusiasmo. «Lo so!»

      «Ma adesso hai la febbre. Non vorrai aspettare qualche altro giorno?»

      «La febbre non mi lascia mai. Ma che importa!… Anzi!… Vedi che il pugno trema!…» e lo guardava con triste soddisfazione. «Vedrai come ci starà bene la spada!»

      «E la tua famiglia?»

      «Povera mamma!» diss’egli passandosi il guanto sugli occhi.

      «Non vorrai vederla?»

      «No!… No!…» ripeté dopo un breve silenzio in tono tutto diverso e afferrandomi le mani. «Non ne ho il coraggio.»

      Le lagrime gli luccicavano nell’orbita, e sentii che quelle lagrime mi toccavano il cuore.

      «Se sapessi come sono fatti gli occhi della madre che ti affissano in volto in certi momenti e ti chiedono certe cose!… Se sapessi!» mormorò come parlando fra di sé.

      Tutt’a un tratto sentii trasalire le sue mani nelle mie.

      «Guarda!» esclamò. «La vedi?… Lei!… Non è bella?» mi domandò Enrico seguendola tra la folla con gli occhi ardenti.

      «Oh!»

      «Se tu la vedessi senza maschera!…»

      «L’ho vista.»

      «Ah! tu la conosci! Ella ti ha gettato la fiamma del suo sguardo… anche a te!.. Non è vero che farebbe commettere tutte le pazzie?…»

      Essa scomparve verso la porta. Enrico era rimasto sempre con gli occhi fissi dov’ella non era più, e le scagliò dietro una parola infame come un’imprecazione.

      «Ah! Ah!» sogghignò con un riso che voleva essere allegro ed era tristissimo. «Se tu sapessi che cosa ho fatto per colei!» e si torceva le mani. «Tu riderai di me, eh?»

      «Oh, no! Ti compiango.»

      «Non voglio della tua compassione!» mi disse bruscamente.

      Poscia, come pentito, e stringendomi la mano:

      «Se tu sapessi come mi sento spregevole e vile!… come mi disprezzo! Dimmi,» soggiunse dopo una breve esitazione, piantandomi in volto due occhi luccicanti come quelli di un pazzo, «voglio domandarne a te che ti occupi di coteste orribile malattie… Dimmi come possono farsi di tali cose per una donna che si disprezza, che si odia… Dimmi come pur sputandole in faccia tutto quest’odio e questo disprezzo si possa morire per lei, si possa sacrificarle l’onore, la vita, la famiglia, la giovinezza, l’arte, tutte le cose che sorridono e che si amano, per abbeverarsi del fiele dell’amore di lei… Dimmi come accada tutto ciò…E dimmi che nei miei panni tu avresti fatto come me, e saresti vile e spregevole del pari!…Oh dimmi questo!…ché mi sembra di impazzire!…Vuoi che io ti narri questa storia…vuoi?…»

      «Sì!» gli dissi sentendomi invadere dalla sua commozione.

      «Ma bisogna che ti dica quello che ero per farti comprendere quel che sono diventato. Ero un genio in erba, una speranza dell’arte italiana, coi capelli lunghi e il cappellaccio alla Rubens; abitavo all’ultimo piano di una vecchia casa in Santo Spirito che il vento, d’inverno, sembrava far traballare sulle fondamenta, e desinavo a cinquantacinque lire al mese. Però in tutte coteste cose ci mettevo, direi, tanta buona fede, che le rendevo quasi rispettabili. Il mio paese mi pagava una pensione, allo scopo di aumentare il numero dei suoi grandi uomini. I miei professori ed i miei colleghi mi tenevano in gran conto, – è vero che c’era poco da fidarsi di loro che avevano in corpo le stesse magagne, ma chi ci avrebbe rinunciato? – Il pubblico ed i giornali mi bruciavano sotto il naso tutti gli stimolanti della vanagloria. Ebbene, chi sarebbe stato più forte di me scagli la prima pietra… Io battezzai pomposamente la mia vanità; la chiamai amore dell’arte, e presi sul serio i miei capelli lunghi e tutte le altre belle cose. Ero contento di passeggiare per le vie di Firenze, come se andassi a braccetto con Raffaello o con Michelangelo. Mi pareva di respirare l’arte a pieni polmoni; e avevo in cuore tutti gli entusiasmi, le antipatie, gli affetti della mia illusione. Vivevo come in un’atmosfera del Cinquecento che mi rendeva idolatra dei palazzi anneriti dal tempo, delle gronde sporgenti e malinconiche, e delle acque torbide dell’Arno… In fede mia!» aggiunse con un ghigno amarissimo «non avevo ancora pensato all’ospedale e al camposanto…»

      Tacque e si passò a più riprese la mano sulla fronte, come per scacciarne molesti pensieri o la commozione che lo vinceva.

      «Follie! si!» mormorò dopo qualche istante quasi parlasse fra di sé.

      «Sei certo di non sbagliarti giudicando così dei sentimenti umani?»

      «Oh, no…Nessuno potrebbe avere cotesta sicurezza… poiché non ci sono sentimenti veri.»

      «Eh?!»

      «Quistione d’ottica, mio caro. Io chiamo follie quelli che tu chiami nobili affetti,» rispose con cinismo amarissimo «perché… perché mi hanno ridotto quale mi vedi… – Quanto guadagni con la tua arte?» soggiunse dopo un breve silenzio, appoggiando l’accento in modo ironico sull’ultima parola.

      La domanda era così brusca e brutale che lo guardai sorpreso. Egli scoppiò a ridere. «Lo vedi,» mi disse, «ti vergogni a dirlo! Adunque sei un pazzo vanitoso, il peggiore.»

      Ero disgustato da quell’affettazione, e gli risposi secco secco:

      «Io mi contento di non mischiare del danaro in certe idee.»

      «Bella frase!» disse senza scomporsi. «Un tempo mi sarebbe parsa anche una nobile risposta. Ma, amico mio, in un’epoca in cui le più vive ambizioni dell’uomo, ed i più seri sforzi della sua attività hanno uno scopo positivo – arricchire – la logica ha il difetto di non prestarsi alle ipocrisie, – confesserai anche tu che le tue idee, nelle quali non vuoi mischiare del danaro, non valgono nulla…Cioè… no!… Valgono a gettarti fra i piedi di cotesta gente, laboriosa perché è assetata di donne e di vino. – E cotesta gente, che si affretta verso la Borsa, riderà di te, ubbriaco in pieno giorno delle sue passioni. – ché anche tu vivi nella medesima atmosfera, e la bevi avidamente, perché il tuo cervello e i tuoi nervi sono in uno stato di esaltazione morbosa. – E la folla ti schernirà, finché arriva una pietosa guardia urbana che ti conduce in prigione in nome della moralità, o ti chiude nel manicomio.»

      Egli si tacque per esaminare trionfante l’effetto della sua eloquenza da pessimista.

      «Che cosa mi rispondi?» domandò sorpreso del mio silenzio.

      «Che hai veramente il cuore ammalato.»

      «Sarà anche vero. Già te l’ho detto che è quistione d’ottica, ed io non pretendo all’infallibilità.»

      «E ti credo molto sventurato.»

      «Sì! Sì!» accennò col capo, e sembrava commosso; indi soggiunse: «È pure una gran sventura quella di perdere certe illusioni… certe follie… care follie che riempivano di rosei sogni la mia cameretta al terzo piano!…E poi, che resta quando esse son svanite?…»

      «Tu lo vedi!»

      «Sì! ci dev’esser qualcosa di vero in coteste illusioni che spalancano il cuore a due battenti verso tutto quello che è nobile e bello!…» esclamò lasciandosi dominare dalla commozione. E poscia come pentitosi, rifacendosi scuro in volto: «Ma è poi vero che sia nobile e bello ciò che mi è parso anche ridicolo un giorno?…»

      «Un giorno di febbre o di sconforto!..»

      «Potresti assicurarmi quali sieno i giorni di sereno, per giudicare con esattezza dei sentimenti, tu che hai amato e odiato la stessa cosa, che ne hai pianto e riso nel medesimo giorno?» domandò con quel sorriso che voleva sembrar cinico ed era una contrazione dolorosa del suo cuore. E lasciando più libero varco alla sua amarezza mormorò: «Non c’è altro di vero che la modificazione dei nostri nervi o la temperatura del nostro sangue».

      «La tua scienza è desolante! È la scienza del nulla!»

      «È vero!»

      «Non hai ma pensato alla tua famiglia?»

      Egli trasalì