iambattista Della Porta
LA CARBONARIA
PERSONE CHE RAPPRESENTANO LA FAVOLA
Pirino innamorato
Forca suo servo
Mangone ruffiano
Filace suo servo
Dottore
Filigenio vecchio
Panfago parasito
Alessandro giovane
Melitea. innamorata
muto
Capitano de’ birri
Raguseo
Isoco. suo amico.
La favola si rappresenta in Napoli.
ATTO I
SCENA I
Pirino. innamorato, Forca. suo servo.
Pirino. Avea inteso dir mille volte che i seguaci d’amore erano il riso, il diletto, il gioco e tutte insieme le compite dolcezze. Misero me, che provo tutto il contrario; ché le malenconie, i noiosi pensieri, le fatiche, i disagi, i sospetti e le gelosie sono i suoi perpetui compagni: e veramente, chi le pruova conosce che queste sono vere e l’altre imagini di dolori.
Forca. Buon dí, padrone.
Pirino. O Dio, che amara compagnia m’han tenuto questi tutta la notte! ho desiato il giorno per ragionar con Forca, il mio servo, d’un mio sospetto, né posso ritrovarlo; oh, sei tu qui? t’ho chiamato tutta questa mattina.
Forca. Anzi v’ho risposto prima che voi mi chiamaste. Ma or con chi ragionate?
Pirino. Con meco.
Forca. Chi è questo meco? guardatevi che non sia qualche mal uomo.
Pirino. Dico: «meco», con me medesimo.
Forca. Dunque voi e meco son due persone?
Pirino. Non t’ho detto tante volte che l’anima mia non è dove ella abita, ma dove ama? avendo io l’animo fisso nell’amato oggetto, resto col corpo abbandonato senza anima; or ch’era ritornata al suo luogo, ragionava con lei.
Forca. Conosco che siate innamorato e malamente, perché sempre avete in bocca l’amato oggetto, andate parlando solo e raccontando i vostri difetti a chi non ve li dimanda. Ma, di grazia, voi di che ragionavate con voi?
Pirino. Apunto di te che pur un tempo eri mio scorporato, non lasciavi mai far cosa per compiacermi; non ho seguitato piacer in mia vita, di cui tu non sia stato il mezano. In somma, io era tutto il tuo bene, or non so come son divenuto tuo figliastro: o fingi o t’infingi non accorgerti de’ miei affanni, e sai che solo sei segretario de’ miei pensieri: non t’amo da servo ma da fratello, e ti dono sempre.
Forca. È vero che mi donate sempre, ma una intrata di cinquanta bastonate il giorno: ché servendovi o disservendovi, senza mirar dove date, alla luce, all’oscuro, con ogni cosa che vi trovate in mano, mi fate piovere adosso una tempesta di bastonate traditore, che non è ora che non abbia da stridere sotto le vostre mani.
Pirino. Tu ben t’accorgi, tristarello, quanto t’ami e quanto vaglio senza te.
Forca. Non mi mirate negli occhi, che non vi paia che ci manchi un pugno; non il mustaccio, che non vi stia bene uno sgrugnone; non nello stomaco, che non vi disegniate un calcio; non le spalle, che non desiate misurarle con un legno. In somma, non avete pelo sovra la persona, che non mi volesse scacciare le mosche da dosso con un querciuolo. E piacesse a Dio che vi contentaste de dieci o venti; ma quando cominciate, non lasciate mai, se prima non fate prova qual sia piú duro o la schena o il bastone: talché le mie carni son diventate come carni d’asino.
Pirino. E se pur ogni mille anni ti dessi qualche colpicciuolo, lo fo da scherzo: non sai, Forca mio caro, che chi ti vuol bene, ti fa piangere? Accadono ben spesso fra gli innamorati delle questioni e delle bòtte, e pur non lasciano d’amarsi: son segni d’amore.
Forca. Se i segni d’amor che devo aspettar da voi saranno di darme bòtte e di farmi piangere, da or vi disgrazio di quanto amore sète per portarmi giamai. I vostri scherzi a me non piacciono: gli asini soli, quando scherzano, si dán morsi che si stracciano la pelle, e calci che si rompono l’ossa.
Pirino. È cosí gran cosa soffrir due bòtte per un amico?
Forca. Cancaro! non è parte in me che non mi doglia, e mi fate portar le carni sempre di piú colori de’ panni d’arazzi. Se l’innamorata vi fa alcun favore, le consolazioni son le vostre; se mala ciera, con una finta occasione – ché son l’armi de’ padroni contro i poveri servi – sfogate la rabbia contra di me, che non ci ho né colpa né peccato: talché ho da patir la penitenza per me e per voi.
Pirino. Te ne cerco perdono, dammi il castigo e non se ne parli piú.
Forca. Ve lo darei per certo volontieri; ma dubito che or togliendolo da scherzo, quando poi vi saltasse la mosca non me lo rendessi da senno e con l’usura ancora.
Pirino. Ti giuro su la mia fé di non toccarti piú mai.
Forca. Avete giurato cosí mille volte; ma montandovi quel maladetto ghiribizzo, tornate come prima e peggio. Un giorno ne farò le mie vendette. Ma perché usate meco sí piacevoli parole? devete aver bisogno di me. Tutta la notte v’ho inteso suspirare, non so se da amore o da umore. Ditemi, che avete?
Pirino. All’infermo dá piú noia l’aver a raccontare a ciascun la sua infirmitá, che l’istessa febre. Se lo sai meglio di me, perché farmelo dire? Sappi, fratellino mio caro, che non vive uomo piú scontento di me sovra la terra; e se non lo credi, mirami in faccia, vera ambasciatrice dell’angoscie dell’anima. Non passava mai ora che la mia carissima Melitea non mi avesse mostrato segni di corrispondenza di amore e datami commoditá di ragionarle o di vederla almeno, conoscendo bene che viveva in lei e per lei. Or son otto giorni, anzi otto mesi, anzi otto lunghissimi anni che non compar né per usci né per fenestre: io dalla mia parte non l’ho dato occasione di sdegnarse meco, onde dubito che altro fuoco la scaldi. Ella è di bellezza tale che né per l’addietro s’è mai veduta né per l’innanzi fia per vedersi: però sollecitata e presentata da molti. È la donna piena di varie voglie, non si sazia mai, facile a piegarsi; e la loro costanza è l’essere mobili e incostanti.
Forca. O poveri innamorati, che ferneticano senza febre! E perché non v’imaginate che abbia rotto lo scudellino del belletto, o che abbia i suoi mesi e che i cerchi degli occhi li stieno lividi, o che abbia il ranno troppo forte che l’abbia scorticato la fronte, e però non si lasci vedere?
Pirino. In somma, ella ará mutato voglia.
Forca. Mutatela ancor voi.
Pirino. Subito dái consiglio, perché non ti duole come duole a me. Io non posso.
Forca. Forzatevi.
Pirino. Ogni cosa può essere, ma che muti pensiero non mai. Ami qualunque li piace, facciami quante offese ella puote, non sará mai che quei disgusti e quelle offese non mi sien piú dolci di quante dolcezze potessi aver in questa vita.
Forca. O padrone, è caduta una lettera dalla sua fenestra: eccola, mirate se viene a voi.
Pirino. Conosco la sua mano. La sottoscritta dice: «La vostra viva e morta Melitea». O anima mia, so che non vuoi che viva vita cosí disperata senza darmi novella di te. Ma che cosa mai potrai tu avisarmi che non mi sia di affanno e di cordoglio? o mia dolce morte, o mia amara vita!
Forca. Leggetela liberamente.
Pirino. «Caro mio bene, poiché non posso dirvelo a bocca, ve lo scrivo in questa carta con speranza che vi venghi in mano. Mi dispiace darvi cosí amara novella, ma soffritela con pacienza. Mangone mi ha venduta al dottore per cinquecento