Emilio Salgari

Il Bramino dell'Assam


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mie foreste dalle bestie pericolose che divorano o sventrano i miei sudditi. Surama firma i decreti per me ed io faccio tuonare la mia carabina. Tu mi parlavi delle cloache».

      «Sì, amico: la pista che Timul ha seguita si è fermata dinanzi ad un gigantesco fognone costruito forse dai mongoli due o trecent’anni fa».

      «E non potreste esservi ingannati?» chiese Surama, la quale era diventata assai pallida.

      «Quando quel diavolo di Timul si mette su una traccia, la segue sempre, senza mai ingannarsi. Lui ha rilevato attentamente i piedi del bramino che dopo d’aver avvelenato il ministro è fuggito». «Sarà poi un bramino?» chiese Yanez. «Non sarà un dacoita invece?»

      «Il mistero è lì, però non dispero di delucidarlo. Ti ricordi, Yanez, quando insieme a Sandokan ed i suoi Tigrotti, abbiamo dato la caccia agli ultimi thugs che si celavano nei sotterranei di Rajmangal?»

      «Come fosse ieri. Mi ricordo benissimo che stavano per affogarci come tanti topi della foce sorpresi da un improvviso uragano. Per qualche ora la morte è passata e ripassata dinanzi a noi e…» Si era interrotto alzandosi bruscamente. «Chi c’è?» «Io, signore: ho picchiato già tre volte e non mi avete udito che alla terza».

      «Per te, Kammamuri, il nostro appartamento privato è sempre libero. Passa, ché vi è anche il tuo padrone». «Lo so, signore, l’ho veduto prima di voi».

      La porta fu spalancata ed il maharatto entrò seguito da quattro valletti i quali portavano, su dei giganteschi tondi d’oro splendidamente scolpiti, due enormi lingue di bufalo fumanti. «Sei diventato cuciniere, ora?» chiese Tremal-Naik.

      «Sì, finché non avremo scoperti ed appiccati o fucilati gli avvelenatori» rispose il maharatto. «In cucina ora impero io, e non perderò d’occhio i cuochi. Voi, signor Yanez, vi eravate dimenticato della cena».

      «Quasi» rispose il portoghese. «La saluto però con piacere, tanto più che non correrò nessun pericolo di sorbire anche io alcune gocce di veleno dei bis cobra».

      «Queste lingue, signore, ed anche la salsa che le contorna, sono state preparate da me solo, perché non ho voluto nessun aiutante, così sarete più sicuro».

      Altri quattro valletti erano intanto entrati portando tondi d’argento, posate, bottiglie, salviette e tovaglia. Una tavola rotonda, d’ebano, incrostata di madreperla e filettata artisticamente d’oro, venne spinta in mezzo allo studio. Rapidamente i valletti prepararono ogni cosa, poi, ad un cenno di Yanez se ne andarono sulla punta dei piedi, senza aver pronunciata una parola. «I ministri vegliano sempre il morto?» chiese il portoghese a Kammamuri. «Sì, signore, e anche bevono molto».

      «Làsciali fare. Nessuno qui più ha da entrare fuorché Timul che sarà chiamato al momento opportuno».

      Chiuse la porta a chiave e si assise a tavola, a fianco della bellissima rhani, con Tremal-Naik di fronte.

      Kammamuri da cuoco era diventato servitore, o meglio cameriere, e tagliava le lingue con grande abilità, coprendo le larghe fette con una salsa rossastra che sprigionava un acuto profumo di pimento, la droga preferita dagli indiani. Malgrado le loro preoccupazioni, i due uomini e la reginetta fecero onore alla cena, non avendo più osato toccar cibo dopo la morte del ministro. Prima di aprire le bottiglie di birra, Yanez osservò con attenzione se erano perfettamente sigillate, poi, soddisfatto empì le alte e strette tazze di cristallo azzurro.

      «Ora possiamo riprendere il nostro discorso» disse offrendo a Tremal-Naik delle sigarette. «Tu dunque mi dicevi che la pista dell’avvelenatore si è fermata dinanzi al fognone».

      «Fermata per modo di dire, perché né io né Timul abbiamo osato cacciarci in quelle gigantesche cloache che non si sa nemmeno quanti canali abbiano, né dove comincino, né dove finiscano. Ti dico io che là sotto, in mezzo a quell’atmosfera corrotta, vivono centinaia e centinaia di persone che non hanno altro tetto». «Dei paria?»

      «O dei cospiratori? Io mi sono informato da un indiano che conosce benissimo quelle cloache, se prima le fogne erano occupate da tutti quei disperati, ed ho avuto una risposta negativa. È solamente da qualche mese, che quando la notte cala, quei misteriosi individui raggiungono i loro fetenti rifugi. Che cosa vanno a fare laggiù, nella città sotterranea? A cacciare i topi? Io non lo credo affatto».

      «E nemmeno io» rispose Yanez, avvolgendosi in una nube di fumo odoroso. «Chi è quell’indiano che conosceva le fogne?» «Un vecchio, un superbo tipo che rassomiglia più ad un baniano».

      «I baniani sono sempre stati troppo poltroni per cospirare. Bisognerebbe ritrovare quell’uomo». «Non me lo sono lasciato scappare, Yanez: è già qui, guardato da Timul». «Fallo venire subito. Quell’uomo potrà esserci immensamente prezioso».

      «così ho pensato anch’io, poiché ci vuol poco a smarrirsi fra quelle immense cloache».

      Tremal-Naik vuotò il suo bicchiere di birra, gettò la sigaretta, aprì la porta ed uscì, mentre Kammamuri toglieva i tondi, lasciando però le bottiglie. Non era trascorso un minuto che rientrava seguito da un vecchio dalla lunga barba bianca e gli occhi scintillanti come quelli dei serpenti. Era magrissimo e si avvolgeva maestosamente in un vecchio dubgah che un giorno doveva essere stato giallo, ma che pel momento non mostrava che delle larghe macchie bianche e molti buchi. In testa portava un piccolo turbante, anche quello in cattive condizioni.

      Appena entrato fece tre profondi inchini alla rhani ed altrettanti a Yanez, poi attese di essere interrogato, fissando quei potenti coi suoi occhi che avevano talvolta la fosforescenza delle pupille dei gatti e delle tigri.

      «Sei indiano di quale regione?» gli chiese Yanez, additandogli una sedia e facendogli portare da Kammamuri una tazza di birra. «Sono un baniano, Altezza» rispose il vecchio.

      «Tutti i tuoi compatrioti sono abilissimi e fortunati commercianti. Che cosa fai tu qui nella mia capitale? Che cosa vendi?»

      «Delle pelli di topo che mando a Calcutta ad una casa inglese, e che servono per fare degli ottimi guanti». «Corpo di Giove!… Sei un cacciatore di rosicchianti?» «Sì, Altezza». «E guadagni?» «Tanto da non potermi comperare un’altra dubgah» sospirò il baniano. «A questo penseremo noi. È vero che tu conosci tutte le fogne della città?» «Sì, Altezza, e posso girarle tutte senza timore di smarrirmi». «Vi è pericolo di perdersi?»

      «Assai, poiché laggiù, fra tutti quei canali che s’incrociano e che si tagliano, che salgono e scendono, scaricando le loro acque fangose nel grande fognone, si perde subito l’orientamento» rispose il baniano. «Quanti disgraziati, che non avevano una casa, io ho incontrati là dentro morti di fame e poi spolpati dai topi. Ne ho veduti degli scheletri io!…» «È dunque così gigantesco il fognone?» chiese la rhani.

      «Immenso, signora ed è un lavoro che meriterebbe di essere visitato. Quante nicchie, quanti canali di scarico, quanti salti d’acqua per le piogge improvvise!…»

      «Fin dove si estende?» chiese Yanez, facendo segno a Kammamuri di portare al disgraziato cacciatore di topi una enorme fetta di lingua con parecchie pagnotte.

      «Io non le ho mai misurate, Altezza; però posso dirvi che si estendono per molte e molte miglia inglesi, e che si prolungano ancora al di là delle cinte della città».

      Yanez lo lasciò cacciar giù quattro grossi bocconi, prontamente inaffiati da un bicchiere di birra, poi il portoghese riprese: «Tu dunque saresti capace di guidarci attraverso la città sotterranea?»

      «E potrei dirvi, Altezza, ogni cento o duecento metri, che sopra di noi passa la tale via, si erge la tale pagoda, il tale monumento». «Ma quanto hai vissuto in quell’inferno?» chiese Tremal-Naik.

      «Tre anni, signore. I miei affari erano andati a male, un inglese mi aveva proposto di procurargli delle migliaia e migliaia di pelli di sorcioni e mi sono cacciato là dentro, procedendo dapprima con estrema prudenza, poiché vi sono dei luoghi difficili ad attraversarsi. Quella strana industria mi dava almeno da mangiare. Quando però quegli sconosciuti invasero il fognone, in pochi giorni mi trovai senza lavoro». «E perché?» chiese Yanez. «I topi, o erano tutti fuggiti o erano stati mangiati». «Mangiati!… E da chi?» «Da quegli invasori» rispose il baniano.