Emilio Salgari

Il Corsaro Nero


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tempo le piú svelte e le piú intelligenti, quantunque siano cosí piccine da potersi nascondere in un taschino della giacca; piú oltre vi erano drappelli di sahuì rosse, un po’ piú grosse degli scoiattoli, adorne di una bellissima criniera che le fa rassomigliare ai leoncini; poi bande di mono, le scimmie piú magre di tutte, con gambe e braccia cosí lunghe che le fanno rassomigliare a ragni di dimensioni enormi, o truppe di prego, quadrumani che hanno la smania di tutto devastare e che sono il terrore dei poveri piantatori.

      I volatili non mancavano e mescolavano le loro grida a quelle dei quadrumani. Fra le grandi foglie delle pomponasse, che servono alla fabbricazione dei bellissimi e leggeri cappelli di Panama, o fra i boschetti di laransia dai fiori esalanti acuti profumi o sulle quaresme, bellissime palme dai fiori purpurei, cicalavano a piena gola i piccoli mahitaco, specie di pappagalli dalla testa turchina; gli arà, grossi pappagalli tutti rossi, che da mane a sera, con una costanza degna di migliore causa, gridano incessantemente arà arà; o i choradeira detti anche uccelli piagnoni, poiché sembra che piangano e che abbiano sempre da lamentarsi.

      I filibustieri e lo spagnuolo, già abituati a percorrere le grandi foreste del continente americano e delle isole del Golfo del Messico, non si arrestavano ad ammirare né le piante, né i quadrumani, né i volatili. Marciavano piú rapidamente che potevano, cercando i passaggi aperti dalle fiere o dagli indiani, frettolosi di giungere fuori di quel caos di vegetali e di scorgere Maracaybo.

      Il Corsaro era diventato meditabondo e tetro, come già lo era quasi sempre, anche a bordo della sua nave o fra le gozzoviglie della Tortue.

      Avvolto nel suo ampio mantello nero, col feltro calato sugli occhi e con la sinistra appoggiata alla guardia della spada, la testa china sul petto, camminava dietro a Carmaux, senza guardare né i compagni, né il prigioniero, come fosse stato solo a percorrere la foresta.

      I due filibustieri, conoscendo le sue abitudini, si guardavano bene dall’interrogarlo e di strapparlo dalle sue meditazioni. Tutt’al piú scambiavano a bassa voce, tra di loro, qualche parola per consigliarsi sulla direzione da tenersi, poi allungavano sempre il passo inoltrandosi vieppiú fra quelle reti gigantesche di sipos smisurate, ed i tronchi delle palme, degli jacarandò e delle massaranduba, fugando colla loro presenza stormi di quei vaghi uccellini chiamati trochilidi od uccelli mosca, dalle splendide penne d’un azzurro scintillante e dal becco rosso, color del fuoco.

      Camminavano da due ore, sempre piú rapidamente, quando Carmaux, dopo un istante di esitazione e dopo d’aver guardato piú volte gli alberi ed il suolo, s’arrestò indicando a Wan Stiller un macchione di cujueiro, piante che hanno foglie coriacee e che producono dei suoni bizzarri quando soffia il vento.

      – È qui, Wan Stiller? – chiese. – Mi pare di non ingannarmi.

      Quasi nello stesso momento, in mezzo alla macchia, si udirono echeggiare dei suoni melodiosi, dolcissimi, che pareva uscissero da qualche flauto.

      – Che cos’è? – chiese il Corsaro, alzando bruscamente il capo e sbarazzandosi del mantello.

      – È il flauto di Moko, – rispose Carmaux, con un sorriso.

      – Chi è questo Moko?

      – Il negro che ci ha aiutati a fuggire. La sua capanna è in mezzo a queste piante.

      – E perché suona?

      – Sarà occupato ad ammaestrare i suoi serpenti.

      – È un incantatore di rettili?

      – Sí, capitano.

      – Ma questo flauto può tradirci.

      – Glielo prenderò e manderemo i serpenti a passeggiare nel bosco.

      Il Corsaro fece cenno di tirare innanzi, però estrasse la spada come se temesse qualche brutta sorpresa.

      Carmaux si era già cacciato nel macchione avanzando su di un sentieruzzo appena visibile, poi era tornato ad arrestarsi mandando un grido di stupore misto a ribrezzo.

      Dinanzi ad una catapecchia di rami intrecciati, col tetto coperto di grandi foglie di palme e semi-nascosta da una cujera, enorme pianta da zucche che ombreggia quasi sempre le capanne degli indiani, stava seduto un negro di forme erculee. Era uno dei piú bei campioni della razza africana, poiché era di statura alta, con spalle larghe e robuste, petto ampio e braccia e gambe muscolose, che dovevano sviluppare una forza gigantesca.

      Il suo viso, quantunque avesse le labbra grosse, il naso schiacciato e gli zigomi sporgenti, non era brutto; aveva anzi qualche cosa di buono, d’ingenuo, d’infantile, senza la menoma traccia di quell’espressione feroce che si riscontra in molte razze africane.

      Seduto su di un pezzo di tronco d’albero, suonava un flauto fatto con una canna sottile di bambú, traendone dei suoni dolci, prolungati, che producevano una strana sensazione di mollezza, mentre dinanzi a lui strisciavano dolcemente otto o dieci dei piú pericolosi rettili dell’America meridionale.

      Vi erano alcuni jararacà, piccoli serpenti color tabacco colla testa depressa e triangolare, col collo sottilissimo e che sono cosí velenosi che dagli indiani vengono chiamati i maledetti; alcuni naja chiamati anche ay ay, tutti neri e che iniettano un veleno fulminante, dei boicinega o serpenti a sonaglio e qualche urutú, rettile a strisce bianche disposte in croce sul capo, e la cui morsicatura produce la paralisi del membro offeso.

      Il negro, udendo il grido di Carmaux, alzò i suoi occhi grandi, che parevano di porcellana, fissandoli sul filibustiere, poi staccando dalle labbra il flauto, disse con stupore:

      – Siete voi?… Ancora qui… Vi credevo già nel golfo, al sicuro dagli spagnuoli.

      – Sí, siamo noi ma… il diavolo mi porti se io farò un passo con quei brutti rettili che ti circondano.

      – Le mie bestie non fanno male agli amici, – rispose il negro, ridendo. – Aspetta un momento compare bianco e li manderò a dormire.

      Prese un cesto di foglie intrecciate, vi mise dentro i serpenti, senza che questi si ribellassero, lo richiuse accuratamente mettendovi sopra, per maggior precauzione, un grosso sasso, poi disse:

      – Ora puoi entrare senza timore nella mia capanna, compare bianco. Sei solo?

      – No, conduco con me il capitano della mia nave, il fratello del Corsaro Rosso.

      – Il Corsaro Nero?… Lui qui?… Maracaybo tremerà tutta!…

      – Silenzio, negrotto mio. Metti a nostra disposizione la tua capanna, e non avrai da pentirti.

      Il Corsaro era allora giunto assieme al prigioniero ed a Wan Stiller. Salutò con un cenno della mano il negro che lo attendeva dinanzi alla capanna, poi entrò dietro Carmaux, dicendo:

      – È questo l’uomo che ti ha aiutato a fuggire?

      – Sí, capitano.

      – Odia forse gli spagnuoli?

      – Al pari di noi.

      – Conosce Maracaybo?

      – Come noi conosciamo la Tortue.

      Il Corsaro si volse a guardare il negro, ammirando la potente muscolatura di quel figlio dell’Africa, poi aggiunse, come parlando fra sé:

      – Ecco un uomo che potrà giovarmi

      Gettò uno sguardo nella capanna e vista in un angolo una rozza sedia di rami intrecciati, si sedette, tornando ad immergersi nei suoi pensieri.

      Intanto il negro si era affrettato a portare alcune focacce di manioca, specie di farina estratta da certi tuberi velenosissimi, ma che dopo essere stati grattugiati e spremuti perdono le loro qualità venefiche; della frutta di anone muricata, sorta di pigne verdi che contengono, sotto le squame esterne, una crema biancastra squisitissima, e parecchie dozzine di quei profumati banani detti d’oro, piú piccoli degli altri, ma molto piú deliziosi e piú nutritivi.

      A tutto quello aveva inoltre aggiunto una zucca ripiena di pulque, bibita fermentata che si estrae in notevole quantità dalle agavi.

      I tre filibustieri, che non avevano sgretolato un sol biscotto durante l’intera notte, fecero onore a quella colazione non dimenticando