uomo bianco, un europeo, accompagnerà Lakon-tay.»
«Chi è?» chiese Mien-Ming, aggrottando la fronte.
«Quel dottore di cui ti ho parlato,» rispose Kopom.
Il viso del puram assunse un’espressione d’odio terribile.
«Quel medico che tu, per molte sere, hai sorpreso in atto di scambiare sguardi con Len-Pra?» chiese.
«Sì, puram.»
Mien-Ming strinse i pugni, come se volesse stritolare qualcosa.
«Ecco un uomo che bisogna sopprimere,» disse poi con voce cupa.
«Un europeo?»
«Fosse anche un principe, un re od un demonio, quell’uomo non seguirà Len-Pra, né Lakon-tay nell’alto Menam. È rientrato nella sua palazzina?»
«Non ancora, padrone.»
«Hai paura tu?»
«Ti ho dato già molte prove di essere coraggioso.»
«Quanti uomini vuoi?»
«Quattro mi basteranno.
«Hai il coltellaccio?»
«Eccolo,» disse Kopom, facendo scintillare alla luce della luna la larga lama tagliente come un rasoio.
«Bisogna però che nessuno se ne accorga.»
«Lo attirerò in qualche luogo deserto. Egli è un medico e non sì rifiuterà di prestare aiuto ad un moribondo.
Se io lo assalissi presso la phe di Lakon-tay, le sue grida attirerebbero i servi del generale e fors’anche il generale stesso.»
«Come agirai?»
«Lascia fare a me, puram; ho il mio progetto,» disse il Cambogiano, sorridendo. «Sarà ben bravo se mi sfuggirà.»
«Sii prudente: io ti seguirò da lontano, pronto a proteggerti colla mia autorità, nel caso che sopraggiungesse qualche guardia notturna.
Tu sai come io ricompenso i tuoi servigi, e ti ho promesso di farti diventare un giorno mandarino e di appagare la tua ambizione.»
«Lo so, padrone: la tua protezione vale quanto quella del re. Farò molta strada,» concluse il briccone, con un tristo sorriso.
Mien-Ming si accostò alla scialuppa, scambiando alcune parole coi battellieri.
Quattro abbandonarono tosto i banchi e balzarono a terra, cacciandosi entro le fasce dei coltellacci simili a quello che aveva il Cambogiano. Erano uomini robusti, tarchiati, dalla tinta fosca, gli occhi obliqui col bulbo giallo, e indossavano una semplice camicia di cotone grossolano che scendeva fino alle ginocchia.
Kopom li guardò attentamente ad uno ad uno, poi, soddisfatto da quell’esame disse: «Ecco dei bei tipi di Malesi, che valgono come dieci Siamesi.»
«Uomini senza scrupoli e dalla mano pronta,» rispose Mien-Ming. «I miei uomini non li recluto che fra i Malesi o i Cambogiani.»
«Addio, padrone, e conta su di me,» disse Kopom.
Risalì la riva seguito dai quattro battellieri e si diresse con passo rapido verso la phe del generale. Quando giunse nella via che separava le due palazzine, si volse verso i Malesi, dicendo loro:
«Andate a nascondervi dietro quel muricciolo e, quando mi vedrete assieme all’uomo bianco, mi seguirete senza farvi scorgere.
Non assalite se prima non udite il fischio del mio pi.
Vi sono cento tical da guadagnare, che il padrone pagherà senza battere ciglio.»
I quattro banditi scomparvero dietro il muricciolo.
Kopom si collocò presso un angolo della palazzina del dottore e si mise a guardare attentamente le finestre della phe di Lakon-tay, le quali erano ancora illuminate.
«L’uccello è ancora lì dentro,» mormorò. «Il puram sarà contento! Io un giorno sarò mandarino, e poi, col tempo, chissà, puram del re anch’io. Gli affari vanno a meraviglia.»
Il Cambogiano era un briccone che per ambizione, per doppiezza e per scaltrezza valeva Mien-Ming.
Era anch’egli un avventuriero, come ve ne sono tanti in quei paesi, senza fede e senza legge, il quale non aveva che un solo scopo: quello di salire in alto.
Aveva cominciato la sua carriera come mahut, ossia conduttore di elefanti alla corte del re di Cambogia, e si era fatto subito distinguere per la sua abilità, per il suo coraggio e soprattutto per la sua furberia. Malgrado però tutti i suoi sforzi, temeva di finire la sua carriera ed i suoi sogni di grandezza fra gli elefanti reali, quando un avvenimento inatteso gli permise di montare il primo gradino.
Il S’hen-mheng del re di Cambogia, il solo che possedeva, perché in quel paese i colossi di quella tinta biancastra sono molto più rari che nel Siam, dopo venticinque anni era morto d’indigestione.
Il re, desolato e spaventato, dopo aver speso invano somme enormi per farne cercare un altro, si rivolse a Phra-Bard il quale, più fortunato, ne possedeva in quell’epoca ben sette, che godevano tutti una eccellente salute.
Malgrado gli offrisse tesori favolosi, il re del Siam rispose con un rifiuto categorico.
Arse d’ira il monarca Cambogiano, e nel suo cuore giurò la distruzione dei S’hen-mheng Siamesi!
Aveva avuto campo, in parecchie occasioni, di apprezzare l’abilità, il coraggio e la scaltrezza di Kopom, e gli diede l’incarico di vendicarlo, promettendogli una somma ragguardevole e la sua protezione.
Munito di raccomandazioni potenti, Kopom riuscì così a farsi accettare, senza troppe difficoltà, fra i servi della corte degli elefanti bianchi del re del Siam, e subito cominciò la sua opera di distruzione.
Un mese dopo il primo S’hen-mheng, il più bello ed il più robusto, colpito da una malattia misteriosa che lo faceva deperire ogni giorno di più, era già cadavere.
Invano i medici Siamesi cercarono le cause di quella morte strana. Un solo uomo però indovinò che il veleno non doveva essere stato estraneo alla fine del povero elefante: Mien-Ming, che nella sua qualità di Cambogiano era maestro in fatto di veleni.
Il puram si guardò bene però di suscitare qualsiasi sospetto nell’animo del re, perché quella morte favoriva i suoi disegni.
Era in quell’epoca che Lakon-tay, governatore della corte dei S’hen-mheng, l’aveva rifiutato come sposo della dolce Len-Pra, e nell’anima bieca del puram era nato un odio profondo, inestinguibile contro il valoroso generale.
Il puram si propose perciò di sorvegliare personalmente il suo compatriota, ed una notte, nascosto dietro una colonna della immensa sala nella quale i guardiani dormivano, scoperse Kopom nel momento in cui stava versando, nel vaso d’argento colmo d’acqua d’un elefante, il contenuto d’una fiala.
Il puram avrebbe potuto, con una semplice parola, perdere l’avvelenatore; invece lo risparmiò perché, come abbiamo detto, la distruzione dei S’hen-mheng doveva segnare la caduta di Lakon-tay. Gli promise di non denunciarlo e fece dell’avvelenatore la sua anima dannata, facendogli balenare la speranza di farlo creare un giorno mandarino.
Come abbiamo veduto, il Cambogiano aveva ottenuto per parte sua il suo scopo, vendicandosi del rifiuto del generale; e Kopom era salito di un altro gradino, sotto la potente protezione del puram, che stimava ben più sicura di quella del re di Cambogia, dal quale non aveva ottenuto, per l’eccidio degli elefanti, che una somma non troppo elevata, nessuno degli onori promessi…
Il briccone si trovava nascosto dietro l’angolo della palazzina da una buona mezz’ora, e cominciava già ad impazientirsi, quando vide la porta della phe di Lakon-tay aprirsi ed uscire l’europeo.
Il Cambogiano attese che avesse attraversato la via, che a quell’ora era deserta, poi, uscendo rapidamente dall’ombra, lo raggiunse, prima che avesse il tempo di salire i tre gradini della palazzina e di percuotere