Emilio Salgari

Le novelle marinaresche di mastro Catrame


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papà Catrame seduto sul barilotto, colle gambe incrociate alla maniera dei turchi, e circondato da tutti i marinai i quali sbarrano tanto d’occhi e aguzzano per bene gli orecchi per non perdere una sillaba dl quanto egli sta per narrare.

      L’Oceano Indiano era così calmo da permettere a tutti – il timoniere eccettuato – di prendere parte a quelle narrazioni interessanti e meravigliose. Un leggero vento che veniva dalle coste d’Africa spingeva la nave verso l’Est, a quella terra strana che si chiama India, e dalla quale eravamo ancora lontani, tanto da poter udire tutte le dodici novelle richieste dal nostro amabile capitano.

      Mastro Catrame, dopo d’aver reclamato con un gesto e un’occhiata uno scrupoloso silenzio da parte di tutto l’uditorio, tracannò d’un sol fiato un grande bicchiere di vecchio Cipro per snebbiarsi il cervello, spezzò coi lunghi denti gialli da vecchio topo un eccellente sigaro d’Avana che gli porgeva il capitano, l’accese con visibile soddisfazione, poi disse con voce grossa e da oltre tomba:

      – Io appartengo a una generazione che è quasi tutta spenta, poiché sono vecchio, vecchio assai, e tutti quelli che m’hanno veduto mozzo riposano in fondo alla grande tazza da molti anni, o dentro il ventre di qualche grosso pescecane.

      Si fermò, quand’ebbe ciò detto, guardandoci con malizia per vedere quale effetto avesse prodotto quella lugubre prefazione che metteva i brividi, poiché aveva una intonazione strana, paurosa; poi continuò:

      – Sono vissuto in un’epoca in cui si credeva alla comparsa dei vascelli fantasmi, agli esorcismi per calmare le tempeste o per sciogliere le grandi trombe marine, alle sirene che venivano a cantare sotto la poppa delle navi attirando gli incauti marinai, agli spiriti del mare, a Nettuno, il re degli abissi oceanici, alla comparsa dei marinai naufragati, ai mostri, alle streghe, alle figlie della spuma. Voi non credete più a tutto ciò, le chiamate leggende paurose, inventate da uomini ubriachi o dalla fantasia tetra dei popoli nordici; ma v’ingannate. Papà Catrame ha veduto molto: le sirene, i morti, i vascelli fantasmi e più ancora.

      Il vecchio lupo di mare, dopo questo secondo esordio non meno lugubre del primo, girò intorno un altro sguardo. Nessuno fiatava, né batteva ciglio: eravamo tutti impressionati e i volti dei mozzi e dei giovani marinai erano impalliditi. Solo il capitano si manteneva impassibile, e le sue labbra si erano atteggiate ad un sorriso beffardo.

      Papà Catrame rimase alcuni istanti silenzioso per raccogliere meglio le idee, indi riprese:

      – Non ricordo più l’epoca, poiché sono trascorsi moltissimi anni ed io ero ancora un ragazzo, non più mozzo, ma non ancora marinaio. Avevo preso imbarco su di una grande fregata a tre ponti, un tipo di nave che non si trova più, poiché tutto è cambiato ora, cambiate le navi, come le abitudini marinaresche.

      – Si chiamava la Santa Barbara: ma il capitano, uno spregiudicato che non temeva né Dio, né il diavolo, che bestemmiava da mane a sera come il leggendario olandese del vascello fantasma, e non credeva in nulla, le aveva imposto un altro nome: il Caronte.

      – Brutte storie correvano sul conto di quella fregata, comandata da quel dannato, un vero dannato, ve lo dice papà Catrame! Si diceva che tutte le notti, nel fondo della tenebrosa cala, si udivano dei misteriosi fragori e dei gemiti; che nelle corsìe si vedevano passare delle ombre bianche che poi scomparivano, e che sulla cima degli alberi appariva sovente una fiammella azzurra. Si diceva ancora che tutte le notti un marinaio nero nero, col viso coperto da una lunga barba rossa, entrava nella cabina del capitano per giocare e bere. Chi fosse, io non ve lo saprei dire; ma i marinai del Caronte sussurravano che doveva essere messer Belzebù: altri invece asserivano che era uno dei marinai fatti ingiustamente appiccare dal capitano, poiché quell’uomo era crudele e aveva ucciso parecchi dei suoi per un nonnulla. Insomma tutti avevano paura, e quando la nave approdava, non pochi marinai disertavano, temendo di finirla male in compagnia di quel tizzone d’inferno.

      – Un abate, che un tempo era stato amico del capitano, aveva cercato di persuadere il testardo bestemmiatore a ridare alla nave il primiero nome e a ravvedersi, ma non era riuscito a nulla; anzi aveva avuto in risposta delle minacce; e il nome di Caronte era rimasto.

      – Avevamo percorsi parecchi oceani e, cosa davvero strana, nessuna tempesta ci era toccata; ma i rumori continuavano a bordo della fregata, e di notte nessun marinaio avrebbe osato scendere solo e senza lume in fondo alla cala. Si sarebbe lasciato frustare a sangue col gatto a nove code piuttosto di calarsi in quella nera voragine.

      – Così però non la poteva durare. Il bestemmiatore era ormai giudicato: il vascello dell’olandese dannato doveva aver bisogno di un marinaio, e voi dovete sapere che su quella nave maledetta, destinata a navigare in eterno fra una continua tempesta, non salgono che gli empi e i crudeli. Avevamo lasciate le coste dell’Africa diretti all’America meridionale, al Callao. Appena lasciato il porto, un marinaio cadde da un pennone e si annegò prima che si avesse avuto il tempo di mettere le imbarcazioni in acqua; al secondo giorno un pennone cadeva dall’albero di trinchetto e piombava ai piedi del capitano, che per poco non rimase ucciso; al terzo giorno una procellaria venne a svolazzare tre volte sopra la nostra nave e precisamente sopra la cabina del bestemmiatore.

      – La procellaria è l’uccello delle tempeste e porta con sé la sventura. Allora si credeva che fosse l’anima di un marinaio morto, e fra l’equipaggio si sussurrò subito che era quella del disgraziato caduto dall’albero e che veniva ad avvertirci di qualche grave sciagura.

      – Un superstizioso terrore aveva invaso tutto l’equipaggio. Un viaggio così male cominciato non doveva finire bene: qualche cosa di grave stava per accadere, lo si sentiva per istinto; ma il capitano non se ne preoccupava, anzi pareva che, come l’olandese maledetto, volesse sfidare il destino e i decreti del Cielo. Bestemmiava più del solito, maltrattava l’equipaggio più dell’usato, beveva e giocava da mane a sera.

      – Ma ecco che un giorno, quando ci trovavamo nei pressi del Capo Horn, l’aria si fa buia ed il mare monta. Sulla sconfinata distesa d’acqua calano, come un immenso stormo di corvi, le tenebre, e il vento fischia attraverso l’alberatura in un modo diverso dal solito, poiché quei fischi erano stridenti, e di tratto in tratto pareva che nel fondo degli abissi marini urlassero dei dannati.

      – Nella stiva si udivano dei fragori paurosi; era un rotolare di catene, quantunque là catene non ve ne fossero, erano boati profondi, poi gemiti. Voi direte che erano i puntelli dei ponti, i corbetti o il fasciame che scricchiolava. No! Ve lo dice papà Catrame!

      Un fremito di paura corse per le membra di tutto l’uditorio a quella solenne affermazione del vecchio marinaio. I mozzi si strinsero attorno ai marinai, e i marinai addosso agli ufficiali. In quel momento si sarebbe udita volare una mosca, tanto era profondo il silenzio che regnava sulla nave, e si sentivano distinti i palpiti di tutti i cuori. Gli occhi di ciascuno erano fissi fissi sul mastro, che pareva assumesse proporzioni gigantesche e che diventasse di momento in momento più bianco, più diafano, e come uno dei paurosi fantasmi che popolavano la cala del Caronte.

      – Verso il tramonto, – riprese papà Catrame con voce cupa, – ecco apparire in lontananza il Capo Horn, il temuto promontorio dell’America meridionale. Parve allora che il mare raddoppiasse la sua ira, non altrimenti che quello del Capo di Buona Speranza, quando l’olandese maledetto vendette l’anima al diavolo, per superarlo malgrado la tempesta.

      – In cielo guizzavano lampi abbaglianti e il tuono rombava incessantemente, facendo tremare perfino gli alberi della nostra nave; fra le nubi sibilava e strideva il vento, e le onde si accavallavano con una rabbia tale che non vidi più mai dopo d’allora, quantunque abbia affrontato di poi non so quanti uragani.

      – L’equipaggio, spaventato, smarrito, pregava; ma il capitano, no imprecava orrendamente contro il Cielo e invocava Satana per aiutarlo a superare il promontorio.

      – Ed ecco ad un tratto apparire sulle spumeggianti onde un punto nero che si avvicina a noi con fulminea rapidità: era la procellaria, quella stessa che era venuta a svolazzare tre volte sul ponte, dopo la morte del marinaio.

      – Girò ancora tre volte attorno a noi e si fermò sopra il nostro vento dell’albero di mezzana.

      – «È l’anima del marinaio!» – esclamarono