Barrili Anton Giulio

Lutezia


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bel vedere, con la sua massa tondeggiante a varii piani e con le sue braccia allargate a semicerchio, di rincontro all'Esposizione. Lo spazio che corre tra i due fabbricati è immenso, circa cento cinquantamila metri quadrati. Il Trocadero ha un acquario nelle viscere, smisurata esposizione di pesci, che si vedono nella piena libertà delle loro occupazioni domestiche girando i meandri di una grotta; ha una cascata che gli esce dal grembo, una gran sala di concerti, di balli e di conferenze nel petto. Che cos'abbia nella testa non rammento più bene; so invece che ha nelle braccia una esposizione retrospettiva dell'arte europea, dall'età della pietra lavorata fino ai tempi moderni, e ci ho ammirato le incisioni fatte dai pastori di venti mil'anni fa sulle corna delle renne e sui denti di mammutte, gli elmi dei Galli, i coltelli dei Druidi, i bronzi e le terre cotte dei Romani, il giaco del Conte Verde, l'armatura di Cristoforo Colombo, l'elmo di Boabdil, ultimo re di Granata; insomma, un mondo e mezzo di curiose e preziose anticaglie.

      Quella del Trocadero è un'architettura tutta bucherellata, che mi piace poco, veduta ne' suoi particolari; le lunghe braccia dell'edifizio son molto, ma molto, lontane dalla dignità di quel doppio colonnato in cui il Bernini ha rinchiusa la basilica di san Pietro, e arieggiano piuttosto le branche sottili di un astaco. Se il Trocadero fosse dipinto di rosso, vi parrebbe infatti di vedere un homard. Ma collocate tutta quella massa su d'un poggio, seminate qua e là, per l'immenso declivio, delle cascate, delle fontane, dei chioschi, dei castelli algerini, la cui grandezza è un nulla a petto di quella mole gigantesca, ed essa finirà col piacervi, come è piaciuta a me. Aggiungo che il Trocadero, essendo nuovo, è bianco; cosa rara a Parigi, dove ogni superficie di marmo, o d'intonaco, annerisce nello spazio d'un inverno; donde la necessità d'imbiancare di tanto in tanto le case, ma non già col pennello, sibbene col rastiatoio.

      La qual cosa non è punto piacevole all'orecchio; experto crede Ruperto. Appunto ora, mentre scrivo, cinque o sei muratori, sospesi a certe funi spenzolanti dal tetto, rastiano la facciata d'una casa vicina, e cantano in coro la canzone alla moda: —Madame Langlumé, j' viens demander vot' fille. Non so quale dei due suoni sia più… laceratore. E la mia prosa ne risente, come vi sarà facile di riconoscere.

      Dunque, dicevamo… Ma badate, qui si salta di palo in frasca, senza tanti complimenti; la vita, come il discorso, è tutta lardellata di parentesi. Da principio ci si confonde un pochino; questi indugi, questi perditempi su d'ogni marciapiede, ad ogni canto di strada, vi fanno bestemmiare perfino Giulio Cesare, che ha fatto di Lutezia una città importante, e Giuliano che aveva la debolezza di starci volentieri; ma poi ci fate la piega, vi accomodate all'indugio, che vi trattiene così poco, alla, noia incontrata, che ve ne fa cansare un'altra, aspettata pur troppo. In questa benedetta città potete dare un appuntamento e dimenticarlo, senza pericolo di passare per uno screanzato. C'est la règle; mentre l'andarci, composto di ricordarsene e di venirne a capo, in questo viavai di gente, in questa rete tessuta d'ostacoli inopinati e d'incontri fortuiti, c'est l'exception. Riuscite a mantener la parola data? Siete una exception. Non riuscite? Siete en règle.

      Esco, se Dio vuole, da questa parentesi e ritorno al Trocadero. Vi ho detto in una delle mie lettere precedenti che sul boulevard, al crocicchio dell'Opera, con tutta quella illuminazione elettrica, par di vedere Babilonia di notte. Orbene, sul ponte di Jena, guardando un po' al Trocadero, un po' al palazzo dell'Esposizione, avete Babilonia di giorno; Babilonia per le grandi linee in distanza, Babilonia per tutti quei ciuffi di verde, che, disseminati a varie altezze, vi dànno un'idea degli orti pensili, Babilonia finalmente per la gran confusione di gente che va e che viene, parlando, fischiando, cincischiando, latrando, cinguettando tutte le lingue della terra.

      Disegni del palazzo dell'Esposizione non cercherò di farvene; in primo luogo, perchè tutti i giornali illustrati li dànno, secondariamente perchè non credo nella efficacia delle descrizioni. Bevuta una tazza di cioccolata al caffè spagnuolo, o di cicoria al caffè algerino, m'inoltro sul ponte di Jena, allargato del doppio con possenti travature laterali, e ammiro il gran palazzo che non vi descriverò; noto che è quasi tutto di ferro e di cristallo, che quei grandi padiglioni del mezzo e degli angoli, con le loro ampie lunette invetriate, arieggiano gli archi a tutto sesto della facciata di San Marco; dò una guardata distratta ad una ventina di nazioni, allegoricamente rappresentate in colossali statue di creta; non mi commovo per una tozza Repubblica francese, di marmo bianco, seduta su d'una cattedra ateniese in capo alla gradinata che è davanti all'ingresso, e di là mi volgo indietro, come il naufrago dantesco, a guardare la sponda opposta. Quello è davvero uno spettacolo meraviglioso. Chioschi, fontane, praterie, castelli africani, padiglioni di zinco, baracche, depositi di marmi francesi, anche lavorati a statue, per far vedere a tutti che l'unico marmo statuario possibile è quel di Carrara; giù giù, sui lati, le tettoie dell'esposizione agricola, le stufe per le piante esotiche, e i fortieri delle ostriche, detti alla francese parchi d'ostricoltura; la testa dell'Indipendenza americana, principio d'una statua arcicolossale in bronzo, che i francesi regaleranno agli Stati Uniti nell'anno… vattelapesca; poi il gran maglio della fonderia del Creuzot; poi un altro acquario per l'ittiologia marina, e finalmente una fabbrica di sidro di Normandia col suo banco di vendita al minuto, che io, feroce bevitore di sidro al cospetto di Dio, rammenterò sempre con gratitudine; eccovi la decima parte di quello che si vede, e la ventesima di quello che non si vede, accatastato, ammonticchiato, pigiato, in un disordine che non manca d'eleganza, sul vasto pendio del Trocadero e sulla riva sinistra della Senna, in giro all'Esposizione e sempre fuori del suo magno recinto.

      Vorrei dirvi qualche cosa delle aiuole di fiori, vere esposizioni orticole, di cui non si potrebbero immaginare le più splendide; ma qui c'è proprio da confondersi, tra i pelargonii dalle foglie tricolori, le araucarie imbricate, le creste di gallo sesquipedali, le jucche, le latanie, i bambù giganteschi, lo vigne nane sopraccariche di grappoli. Cesso da inutil opra, come direbbero i classici; rinunzio a questa fatica da cani, come si dice in volgare.

      Entriamo, se vi piace, nel gran palazzo di cristallo, detto del Campo di Marte, perchè ne occupa tutto lo spazio, cioè a dire una superficie di quattrocento ventimila metri quadrati. Questo palazzo ha due facciate, l'anteriore e la posteriore, e per conseguenza due grandi vestiboli, ognuno dei quali è largo ventiquattro metri e lungo trecento cinquanta, cioè quanto la facciata medesima, «sotto le cui tre cupole – ei corre e si dilata – fiume di cento popoli – che fanno… un'insalata».

      L'insalata dei popoli è un'immagine che il Preti e l'Achillini m'invidieranno dalla tomba. Ma per descrivere questa roba ci vuole a dirittura lo stile del Seicento. In mezzo al vestibolo, davanti all'ingresso, c'è un orologio monumentale, che fa fronte da quattro lati ed ha quattro statue, rappresentanti i quattro elementi degli antichi. Il pendolo, indipendente dall'orologio, ma pendente dalla cupola, ha una lunghezza di ventiquattro metri, e consta d'un complesso di sfere, collegate in modo da formare una specie di bilanciere. Scusate la rima; qui si diventa poeti senza volerlo.

      Amate meglio diventar milionarii? Tentate un colpo su quella vetrina ottagona che si vede alla sinistra dell'orologio, sormontata da un baldacchino rosso. Ci sono dentro i diamanti della corona; il Reggente, che pesa cento trentasei carati e vale cinque milioni, non un soldo di meno; i sette diamanti del cardinal Mazarino; un diadema in diamanti e perle, che valgono cinquecento mila lire l'una; poi turchesi e brillanti; collane di perle; diamanti e rubini; stelle in diamanti, ricevute da Napoleone III in regalo da parecchi sovrani; la Giarrettiera; l'Elefante di Siam; un'impugnatura di spada, eseguita per Carlo X; un orologio tempestato di diamanti, destinato in principio al Dey di Algeri, che fu poi tempestato (il Dey, non l'orologio) di palle da trentasei e di altri oggetti sferici dello stesso valore; finalmente un diadema in diamanti che può all'occorrenza trasformarsi in collana. Vi avverto, per altro, che ad una cert'ora di sera la preziosa vetrina discende sotto il pavimento, in un misterioso nascondiglio, il cui orifizio si ricopre con spesse lastre di ferro fuso. Uomo avvisato, mezzo salvato.

      Non ci perdiamo nel vestibolo d'onore, detto del ponte di Jena; usciamo all'aperto, nella via interna, detta la via delle Nazioni. Essa corre rasente alla sezione centrale, dove è l'esposizione di belle arti di tutti i popoli d'Europa, ed ha sull'altro fianco l'esposizione industriale di tutti i popoli dell'Europa, suddetta, e di parecchi dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Australia. Ognuna delle nazioni che concorrono all'esposizione ha la sua facciata su questa via. L'Inghilterra ci ha riprodotto lo stile della sua architettura ai tempi della regina Anna, o giù di lì; gli