Grazia Deledda

Dopo il divorzio


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vero, no! Non mi far parlare, Minnìa, – gridò il bambino minaccioso, – in quanto a rubare…

      La bimba tacque come per incanto; ma dopo un po' il bimbo prese un bastone e col manico ricurvo cominciò ad afferrarle una gamba, e Minnìa si mise a piangere; la nonna si voltò col mestolo in mano.

      – In verità, io vi batto col mestolo, cattivi figliuoli. Aspettate, aspettate. – Li rincorse, ed essi scapparono nel cortile, andando ad urtare contro Giovanna e la madre.

      – Che c'è, che c'è?..

      – Ah, mi fanno disperare, essi sono indiavolati!.. – disse zia Porredda dalla porta di cucina.

      In quel punto una figurina nera si staccò dal portone socchiuso e disse con voce commossa:

      – Essi tornano, nonna, eccoli qui.

      – E lasciali tornare. Faresti bene, Grazia, a dar attenzione ai tuoi fratelli, che si azzuffano fra loro come pulcini.

      Grazia non rispose, ma poco dopo prese dalle mani di zia Bachisia il lume di ferro, lo spense e andò a nasconderlo dietro la panca di cucina, dicendo a bassa voce:

      – Dovreste vergognarvi di queste candele, nonna, ora che c'è zio Paolo.

      – Ma che zio Paolo; credi che egli sia stato allevato nell'oro?

      – Egli viene da Roma…

      – Un corno! A Roma lumi come questi non ce ne sono, perchè l'olio lo comprano a soldi, mentre noi ne abbiamo delle olle colme.

      – State fresca voi se credete ciò, – disse la ragazza, e saltò nel cortile palpitando nell'udire la voce del nonno e dello zio.

      – Giovanna, salute, zia Bachisia come state? – diceva la voce calda dello studente. – Io bene, grazie al Signore! Oh, mi dispiace tanto la vostra disgrazia: coraggio, chissà? è domani la sentenza?

      Entrò nella stanza ov'era apparecchiata la tavola, seguìto dalle donne e dai bambini che la sua presenza intimoriva e divertiva nello stesso tempo.

      Egli era piccolo e zoppicava alquanto, perchè aveva un piede più piccolo e una gamba un po' più corta dell'altra. Perciò lo chiamavano dottor Pededdu (piedino), ed egli non se n'aveva a male, perchè, diceva, val meglio avere un piede più piccolo dell'altro che avere la testa più piccola di quella degli altri.

      Il suo visino roseo e tondo con due piccoli baffi biondastri, sorrideva sotto un gran cappello nero a cencio. Egli dicevasi socialista.

      Entrato nella stanza si mise a sedere sul letto, a gambe sospese, e attirò accanto a sè, uno per parte, il nipote e la nipotina che lo guardavano a bocca aperta, stringendoli a sè, senza badarvi, dando attenzione al racconto doloroso che gli faceva zia Bachisia. Però di tanto in tanto osservava Grazia, la cui figurina tredicenne alta e angolosa, in formazione, veniva viepiù deformata da un vestitino nero troppo stretto. Gli occhi di lei, chiari e metallici, fissavano ostinatamente, avidamente lo zio.

      – Ecco, – diceva zia Bachisia con la sua voce rauca, – il fatto andò così: Costantino Ledda aveva uno zio carnale, fratello del padre; si chiamava Basile Ledda soprannominato l'Avoltoio (Dio l'abbia in gloria, se non è fra le granfie del diavolo), tanto era avido di denari.

      «Era un tristo, un avoltoio giallo, Dio l'abbia perdonato: basta, si dice che abbia fatto morire la moglie di fame. Ecco, Costantino restò sotto la sua tutela; aveva qualche cosa, il bimbo; lo zio gli mangiò tutto, poi lo bastonava, lo legava tra due pietre, in campagna, e lo lasciava al sole ed alle api che gli pungevano persino gli occhi.

      «Basta, arrivò un giorno che Costantino scappò di casa; aveva sedici anni. Mancò tre anni: egli disse d'essere stato a lavorare nelle miniere, io non so, egli disse così.

      – Sì, sì! Egli è stato a lavorar nelle miniere! – proruppe Giovanna.

      – Non so! – disse la madre, stringendo la bocca in atto dubbioso. – Basta, fatto sta che durante l'assenza di Costantino fu su Basile l'avoltoio sparato un colpo di fucile mentre stava in campagna. È vero che egli aveva dei nemici. Quando Costantino tornò, confessò che era scappato per sfuggire alla tentazione di ammazzare lo zio, che aveva odiato a morte; ora però il giovane cercò e ottenne di far pace con l'avoltoio… Ora senti, Paolo Porru…

      – Dottor Porru! Dottor Pededdu! – gridò il nipotino, correggendo l'ospite. Questa lo guardò con ira e fu per dargli uno schiaffo, un piccolo schiaffo; Giovanna si mise a ridere.

      Nel veder ridere l'ospite addolorata, che aveva lo sposo in carcere e che quindi appariva circondata da un'aureola romantica, anzi tragica, la pallida e scarna Grazia si mise anch'essa a ridere nervosamente; anche Minnìa rise, anche il piccolo paesano e lo studente risero. Zia Bachisia si guardò attorno con occhi fosforescenti. Perchè ridevano? Erano matti? Alzò la mano gialla e magra, ma mentre stava per lanciare uno schiaffo, non sapeva bene se a sua figlia od al bimbo, ecco zia Porredda coi maccheroni fumanti.

      Dietro di lei veniva zio Efes Maria Porru, uomo grosso, imponente, col petto molto stretto nel velluto turchino del giustacuore. Egli era un contadino che posava a letterato: aveva un faccione grigio che pareva un mascherone di marmo vecchio, con la corta barba a riccioli, le labbra grosse spalancate, e gli occhi grandi e chiari.

      – Presto, presto a tavola! – disse zia Porredda, sbattendo il piatto in mezzo alla tavola. – Ah, voi ridete? Il piccolo dottore vi fa ridere?

      – Io stavo per dare uno schiaffo a vostro nipote, – disse zia Bachisia.

      – Perchè, anima mia? Venite dunque a tavola. Giovanna qui. Dottor Porreddu, venga qui.

      Lo studente si gettò supino sul letto, stese le braccia, sollevò le gambe per aria, le riabbassò, si rialzò, balzò giù in piedi, sbadigliando.

      E i ragazzi e Giovanna ricominciarono a ridere. Egli disse:

      – Un po' di ginnastica fa bene. Oh Dio, come dormirò stanotte! Ho tutte le ossa slegate. Come ti sei fatta grande, Grazietta; sembri una pertica.

      La ragazza arrossì e chinò gli occhi; zia Bachisia sporse il muso, scandolezzata perchè lo studente pensava a tutt'altro che alla storia da lei narrata, e perchè gli ospiti tutti facevano poco caso della disgrazia di Costantino. D'altronde anche Giovanna sembrava dimenticare, e solo quando zia Porredda le ebbe messo davanti una enorme porzione di maccheroni rosei fragranti di sugo, la giovine si rifece scura in volto e rifiutò di mangiare.

      – Ve l'avevo detto io! – esclamò zia Porredda, meravigliata. – Essa è matta, in verità mia è matta! Perchè non mangiare ora? Che c'entra il mangiare, ora, con la sentenza di domani?

      – Via, – disse zia Bachisia, non senza un po' d'acredine, – non far sciocchezze; non disturbar la gioia di questa brava gente.

      E zio Efes Maria si mise signorilmente il tovagliuolo sotto il mento, e sputò la sua sentenza letteraria.

      – Cuor forte contro la sorte, dice Dante Alighieri. Via, Giovanna Era, dimostra che tu sei un fiore delle montagne, più forte delle pietre. Il tempo appianerà ogni cosa.

      Giovanna cominciò a mangiare, ma con un singhiozzo in gola che le impediva d'ingoiare le vivande.

      Paolo stava zitto, curvo sul suo piatto: e questo era già pulito quando Giovanna arrivò a ingoiare il primo maccherone.

      – Sei un vento, figlio mio, – disse zia Porredda. – Che fame da cane hai tu! Ne vuoi altri? Sì; e altri ancora? Sì?

      – Oh bravo! – disse zio Efes – parrebbe che nella Città Eterna tu non abbia visto mai roba da mangiare.

      – Eh, l'ho detto io, – affermò zia Porredda, – luoghi belli, se volete, ma là tutto si compra a soldi contanti. Io l'ho sentito dire, in verità mia: nelle case non ci sono provviste, come da noi, e quando nella casa mancano le provviste, voi sapete bene che non ci si sazia mai…

      Zia Bachisia annuì, perchè purtroppo ella sapeva ciò che è una casa senza provviste.

      – È vero o non è vero,