Edward Gibbon

Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8


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guastare il conio delle monete d'oro. In vece di aspettare che rifiorisse la pace e l'industria, egli impose una grave tassa sopra le sostanze degli Italiani. Nondimeno le sue presenti e future angherie riuscirono meno odiose che il proseguimento di un arbitrario rigore contro le persone e le proprietà di quanti avessero, sotto i Re Goti, avuto parte nell'esazione o nella spesa del pubblico denaro. I sudditi di Giustiniano, che scansavano queste parziali vessazioni, venivano oppressi dall'irregolar peso di mantenere i soldati che Alessandro frodava e disprezzava; ed il furioso correre di costoro in cerca di ricchezze o di viveri, provocava gli abitatori del Paese ad aspettare, od implorare dalle virtù di un Barbaro la loro liberazione. Totila110 era casto e temperante, e di quanti si commisero alla sua fede, od amici o nemici, nessuno rimase ingannato. Il Re Goto pubblicò un bando che fu ben ricevuto dai contadini dell'Italia, col quale imponeva che continuassero nei loro importanti lavori, e vivessero sicuri che pagando essi le tasse ordinarie, egli col suo valore e colla disciplina delle sue truppe li difenderebbe dalle calamità della guerra. Totila attaccò, una dopo l'altra, le città forti, e tosto che si erano arrese alle sue armi, ne demoliva le fortificazioni, onde salvare il Popolo dai disastri di un assedio futuro, privare i Romani dell'arti della difesa, e decidere la tediosa contesa delle due nazioni, mediante un eguale ed onorevol conflitto sul campo della battaglia. I prigionieri e disertori romani si lasciavano trarre ad arrolarsi nel servizio di un avversario liberale e cortese. Gli schiavi furono adescati colla ferma e fedele promessa che mai non verrebbero restituiti ai loro padroni, e dai mille guerrieri di Pavia si formò insensibilmente, nel Campo di Totila, un nuovo popolo collo stesso nome di Goti. Sinceramente egli tenne gli articoli dell'accordo, senza cercare od accettare alcun sinistro vantaggio da espressioni ambigue, o da eventi non preveduti. La guarnigione di Napoli aveva stipulato che sarebbe trasportata per mare; l'ostinazione dei venti impedì quel tragitto; ma essa fu generosamente provvista di cavalli, di provvisioni e di un salvocondotto fino alle porte di Roma. Le mogli dei Senatori ch'erano state sorprese nelle ville della Campania, furono restituite senza riscatto ai loro mariti, la violazione della castità femminile fu inesorabilmente punita di morte; e nella dieta salutare che impose ai Napolitani affamati, il Conquistatore sostenne le parti di un medico umano ed attento. Le virtù di Totila meritano un'egual lode, sia che procedessero da sana politica, o da principi di Religione, o da istinto di umanità. Egli spesso arringava le sue truppe, e sempre ad esse ripeteva che i vizj e la rovina di una nazione sono cose inseparabilmente congiunte; che la vittoria è il frutto della morale, non meno che della militare virtù, e che i Principi ed anche i Popoli sono risponsabili dei delitti che trascurano di castigare.

      Gli amici ed i nemici di Belisario con eguale ardore lo sollecitavano perchè salvasse il paese ch'egli aveva soggiogato; e la guerra Gotica fu imposta al Comandante veterano o come un pegno di fede, o come una specie di esilio. Eroe sulle rive dell'Eufrate, schiavo nel palazzo di Costantinopoli, egli accettò con ripugnanza la penosa cura di sostenere la sua propria fama, e di ammendare i falli de' suoi successori. Aperto era il mare ai Romani. Si raccolsero le navi ed i soldati a Salona, presso il palazzo di Diocleziano. Belisario rinfrescò e passò a rassegna le sue truppe a Pola nell'Istria, costeggiò l'Adriatico, entrò nel Porto di Ravenna, e spedì ordini anzi che ajuti, alle subordinate città. Il primo suo discorso pubblico fu rivolto ai Goti ed ai Romani, in nome dell'Imperatore, il quale aveva sospesa per breve tempo la conquista della Persia, e dato ascolto alle preghiere de' suoi sudditi Italiani. Leggermente egli toccò le cagioni e gli autori dei disastri recenti; cercando di allontanare il timor del castigo per le cose passate, e la speranza dell'impunità per le future, coll'adoperarsi con più zelo che buon successo ad unire tutti i membri del suo Governo in una ferma colleganza di affezione e di obbedienza. Giustiniano, suo grazioso Signore, era propenso a perdonare ed a premiare, ed era loro interesse, ugualmente che loro dovere, di richiamare sulla buona via i loro delusi fratelli, ch'erano stati sedotti dalle arti dell'usurpatore. Nessuno però si lasciò indurre a disertare gli stendardi del Re Goto. Belisario tosto si avvide, che mandato lo avevano a rimanere l'ozioso ed impotente spettatore della gloria di un giovane Barbaro; e la sua lettera all'Imperatore ci offre una genuina e vivace pittura delle angustie di un nobile animo. «Eccellentissimo Principe, noi siamo arrivati in Italia, privi di uomini, di cavalli, di armi e di denaro, cioè di quanto fa bisogno alla guerra. Nell'ultimo nostro giro pei villaggi della Tracia e dell'Illirico, abbiamo raccolto con estrema difficoltà da quattromila reclute, ignude ed affatto inesperte nel maneggio delle armi, e negli esercizj del Campo. I soldati già stanziati nella Provincia sono malcontenti, sbigottiti e senza cuore. Al rumore di un inimico essi abbandonano i loro cavalli e gettano a terra le armi. Non si possono levare contribuzioni, perchè l'Italia è nelle mani dei Barbari; il difetto di pagamento ci ha privato del diritto di comandare, ed anche di ammonire. Siate certo, o temuto Sire, che la maggior parte delle vostre truppe è già passata dalla parte dei Goti. Se la sola presenza di Belisario bastasse a terminare la guerra, il vostro desiderio sarebbe appagato; Belisario è nel mezzo dell'Italia. Ma se bramate di conquistare, si richieggono ben altri apparecchi: senza una forza militare, il titolo di Generale è un nome vano. Sarebbe utile di restituire al mio servizio i miei veterani e le mie guardie domestiche. Prima che io possa entrare in Campo, conviene ch'io riceva un adeguato rinforzo di truppe sì di grave che di leggiera armatura, e senza denaro contante non si può conseguire l'indispensabil ajuto di un poderoso corpo della cavalleria degli Unni111». Un ufficiale, in cui Belisario mettea fiducia, fu spedito da Ravenna per accelerare e condurre i soccorsi; ma negletta ne fu l'ambasciata, ed il messaggiero si trattenne per un vantaggioso matrimonio in Costantinopoli. Il Generale romano, poscia che la sua pazienza fu vinta dall'indugio e dal vedere tutte le sue speranze tradite, ripassò l'Adriatico, ed aspettò in Dirrachio l'arrivo delle truppe, che lentamente venivano raccolte tra i sudditi e gli alleati dell'Impero. Le sue forze erano tuttora insufficienti alla liberazione di Roma, la quale strettamente era assediata da Totila. La via Appia, lunga quaranta giornate di marcia, era coperta dai Barbari, e siccome la prudenza di Belisario voleva evitare una battaglia, egli antepose la sicura e spedita navigazione di cinque giorni dalla costa dell'Epiro alla foce del Tevere.

      Il Re dei Goti, poich'ebbe o colla forza o cogli accordi, ridotto all'obbedienza le città di minor conto nelle province mediterranee dell'Italia, passò, non ad assaltare, ma a circondare ed affamare l'antica capital dell'Impero. Roma era tribolata dall'avarizia, e difesa dal valore di Bessa, condottier veterano di estrazione Goto, il quale con un presidio di tremila soldati occupava lo spazioso circuito di quelle venerabili mura. Dalle angustie del Popolo egli traeva un vantaggioso commercio, e segretamente s'allegrava che continuasse l'assedio. In servigio di lui erano stati riempiti i granai. La carità di Papa Vigilio aveva provveduto e fatto imbarcare una gran quantità di grano dalla Sicilia; ma le navi che fuggirono ai Barbari, furono sequestrate da un rapace Governatore, il quale compartiva uno scarso vitto ai soldati, e vendea il rimanente ai facoltosi Romani. Il medinno, ossia la quinta parte di un sacco di grano, si permutava contro sette monete d'oro; e se ne davano sino a cinquanta quando trovavasi un bue; i progressi della carestia accrebbero ancora questi esorbitanti prezzi, e l'avarizia dei mercenari spesso giungeva a privarsi della porzione loro assegnata, che appena era bastante per sostentarne la vita. Un'insipida e mal sana mistura, in cui la crusca superava tre volte la quantità della farina, faceva tacere la fame dei poveri; essi a poco a poco si ridussero a cibarsi di cavalli morti, di cani, di gatti, di sorci, ed avidamente schiantavano le erbe ed anche le ortiche che crescevano fra le rovine della città. Una folla di pallidi e maceri spettri, oppressi il corpo dalle malattie e l'animo dalla disperazione, attorniò il palazzo del Governatore, gli rappresentò con utile verità che il padrone aveva l'obbligo di mantenere i suoi schiavi, ed umilmente richiese ch'egli provvedesse alla sussistenza loro, o permettesse che uscissero dalla città, ovvero ordinasse l'immediato loro supplizio. Bessa, con insensibile calma, rispose che egli non poteva nutrire, non gli conveniva di lasciar partire, e non aveva il diritto di uccidere i sudditi dell'Imperatore. Non pertanto, l'esempio di un cittadino privato avrebbe potuto mostrare a' suoi compatriotti che un Tiranno non può togliere il privilegio di morire. Trafitto dalle grida di cinque figli che vanamente dimandavan del pane, egli ordinò a questi che gli venissero dietro; si avanzò, con tranquilla e tacita disperazione, sopra uno dei ponti del Tevere, e copertosi il volto, si gettò capovolto nel fiume, al cospetto della sua famiglia e del Popolo romano. Ai ricchi e pusillanimi, Bessa112 vendeva il