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La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte III


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Newton, studia il genio letterario, artistico dei diversi popoli e fa suo tutto quello che gli pare buono e utilmente imitabile. Non si contenta di riconoscerlo in teoria, ma lo traduce anche in pratica. Compone tragedie, che – pei tempi – sono un documento singolarissimo di originalità e di audacia. Ammira Shakespeare, le letterature straniere in ciò che hanno di veramente ammirevole, combatte i vizi vieti e insostenibili della vecchia rettorica, combatte l'uso e l'abuso della mitologia; insomma è uno spirito nuovo, che si leva in mezzo alla supina sottomissione di tutti gli spiriti intorno a lui. E col Conti noi vediamo» il Baretti, lo stesso nostro mansueto Pietro Metastasio levare un poco il capo, scandagliare l'orizzonte, discutere questa tradizione classica, di cui non rimanevano ormai che formole vuote e documenti degenerati. Viene formandosi insomma una specie di tradizione, una specie di catena, i cui anelli si possono anche contare e distinguere l'uno dall'altro, e che costituiscono appunto quello che, anche per l'Italia, si potrebbe chiamare il nostro romanticismo avanti lettera. La schiera è più numerosa che di solito non sia avvertito. Il nostro Goldoni, per esempio; ma chi più uomo della natura, chi più libero artista del gran commediografo veneziano? E il nostro Parini che pel primo comincia a darci delle pitture mirabili, dei quadretti scintillanti di luce, freschi d'aria, pieni di verità; il Parini che per primo, in mezzo a tutto il lusso delle reminiscenze mitologiche, per primo nel suo Giorno vi descrive il mattino come ve lo potrebbe descrivere, anzi come ve lo potrebbe dipingere un grande paesista moderno, senza nessuna reminiscenza, senza nessuna maniera, senza nessun ingombro di vane immagini tolte dal prontuario dei vecchi poeti? E lo stesso Vincenzo Monti? Vincenzo Monti noi lo consideriamo come l'ultimo vessillifero dei classici intransigenti; e sotto un rispetto è vero, perchè egli fu l'ultimo che quasi sempre proceda poetando col porre il sentimento dell'animo suo in intimo contatto colle reminiscenze dei grandi poeti antichi. Bisogna anche ricordarsi che, dopo avere un momento vacillato dinanzi alla dottrina nuova che accennava dall'orizzonte, si ricordò il suo dovere di vecchio adoratore dei numi di Parnaso e lanciò il famoso sermone contro l'audacia della scuola boreale, la quale voleva bandire la mitologia e alle vaghe finzioni della Grecia e di Roma sostituire quello che egli disse col celebre verso:

      L'arido vero che dei vati è tomba.

      Eppure quanta vita, quanta modernità di vita anche nelle poesie di Vincenzo Monti! Egli accolse nei suoi poemi tutto ciò che fremeva, tutto ciò che ferveva intorno a lui. Leggete solamente la Mascheroniana, e voi ci troverete la cronaca contemporanea, viva, tumultuaria, urlante, stridente. Quei demagoghi, quegli arruffapopoli della Cisalpina sono descritti nella Mascheroniana con un accento di verità, diciamo la parola moderna, con una crudezza di realismo, quale non sarebbe stato possibile se anche l'animo goliardico di Vincenzo Monti non si fosse aperto all'alito dei tempi nuovi; se egli non avesse sentito che l'arte doveva lanciarsi verso un nuovo ideale: che troppo si era frivoleggiato, che troppo si era imitato, che la storia d'Europa e d'Italia veniva assumendo un aspetto troppo eloquente, troppo serio, perchè fosse ancora possibile il mantenere tra la storia umana e l'arte tutti quei moduletti di antiche reminiscenze classiche passati attraverso le degenerazioni dell'Arcadia.

      Da questo e da altri esempi, che qui ometto per brevità, risulta che anche noi abbiamo avuto, in fatto di romanticismo, la cosa prima del nome, e, che in sostanza, anche da noi molto per tempo venne sentito e riconosciuto col fatto tutto quello che formerà poi la sostanza del movimento romantico.

      III

      Ma l'Italia non era disgregata dalle altre nazioni, e anche sull'Italia, massimamente nella parte più animata e più civile, doveva fortemente ripercuotersi l'influsso della agitazione letteraria, che si faceva sempre più gagliarda in Germania, in Francia e in Inghilterra. Ed ecco che anche fra noi si comincia a parlare di romanticismo vero e proprio. I due suoi araldi più prossimi furono Ugo Foscolo e Ippolito Pindemonte. Ugo Foscolo che nell'Jacopo Ortis deriva dalla invenzione di Volfango Goethe una così gagliarda e poetica imitazione, elevandola a creazione vera, là dove fonde la tragica passione d'amore col sentimento doloroso della decadenza d'Italia: Ippolito Pindemonte, che col suo estro mite e gentile comincia a esumare a uno a uno tutti i temi, che diventeranno poi argomento favorito della poesia romantica qualche anno dopo. Egli canta i lari domestici, i viaggi attraverso l'Europa, canta le dorate selve, canta la Malinconia, Ninfa gentile – singolare accoppiamento dove è ancora un baleno della reminiscenza classica, e dove è già l'alito della poesia nuova, che viene dai laghisti inglesi, che viene dalla scuola dei paesisti di Zurigo, che viene dal naturalismo germanico e dalle pagine di Rousseau e di Bernardino di Saint-Pierre. Anche nel buon Ippolito noi sentiamo già gli aliti precursori del nuovo spirito letterario, i primi accenni della nuova intonazione poetica che poi prenderà una così grande accentuazione nella letteratura italiana. Ed è quello stesso Pindemonte, o Signore, che pur rimanendo compreso di grande ammirazione davanti all'evocazione classica di cui tanto abbonda il Foscolo nei suoi Sepolcri, non teme di muovergli un discreto rimprovero, – Ma perchè hai tu voluto pescare nella remotissima antichità mitologica ciò che potresti invece trovare in tempi più vicini a noi, nella vita che viviamo noi, nei dolori di cui soffriamo, nelle speranze di cui l'anima nostra si riempie? Antica sia l'arte onde vibri lo strale, ma non sia antico l'oggetto a cui mira! Al suo poeta, non a quello di Cassandra, Ilio ed Elettra dell'Alpe e del mare, farà plauso l'Italia.

      Ad affrettare in Italia il movimento romantico concorse notevolmente la venuta fra noi di alcuni illustri antesignani della scuola: come lo Schlegel, lo Châteaubriand, il Sismondi, Madama di Staël (che molto bene si affiatò con Vincenzo Monti), Giorgio Byron ed altri. Così arriviamo ad avere anche fra noi una scuola che, a viso aperto, si dice romantica; che ha dei seguaci, che ha degli avversari, che entra insomma in campo con tutti gli armamenti di una gran battaglia; e questa battaglia essa la vuol dare, e la vuol vincere, proprio là dove batte più fervido il cuore alla nazione italiana, a Milano, verso il tramonto del primo regno italico. Uno di quelli che parlano più alto, più potente in nome del romanticismo è Giovanni Berchet con la lettera famosa intitolata Lettera semiseria di Crisostomo, nella quale egli accompagna tradotte due ballate di un celebre poeta tedesco. Il cacciatore feroce e l'Eleonora. Esse sono due fantasticherie nordiche, raffiguranti un mondo, che non sarà mai il nostro e che non potrà mai intonarsi bene con la letizia del cielo italiano. A ogni modo il Berchet – infelice nella scelta degli esempi – si vale di queste due forti ballate tedesche per bandire alle turbe italiane il verbo della letteratura nuova. In mezzo a molte parole e idee non sempre esatte e raccomandazioni non del tutto opportune, la Lettera semiseria mette innanzi questa formula semplicissima: La Poesia deve essere l'espressione diretta della vita. Non vi paia poco, o Signore! Per lo addietro un artista, un poeta quando voleva trattare un soggetto, era tratto anzitutto a pensare quali grandi poeti, quali grandi artisti, avessero già trattato cotesto soggetto, e per una specie di orientazione inevitabile si metteva, più o meno, ad imitare. Adesso invece veniva innanzi il buon Crisostomo a dire: «La Poesia è l'espressione diretta della vita.»

      Giovanni Berchet era tutt'altro che un dispregiatore della grande e sacra antichità. – Ammiriamo gli antichi, diceva, ma ricordiamoci che il poeta, l'artista deve studiare e sentire la vita, deve mettersi in faccia alla natura, e di lì assumere la viva e costante ispirazione. La Poesia deve essere viva come l'oggetto che esprime: libera come il pensiero che le dà moto, ardita come lo scopo a cui è indirizzata. Le forme che ella assume non costituiscono l'essenza di lei, – notate anche questo – ma contribuiscono occasionalmente a dare effetto alle intenzioni. – Con questa sentenza del poeta è gettato un grande scompiglio in tutta l'antica gerarchia artistica e letteraria; è insomma sostituito ciò che quella buona lana di Pietro Aretino tre secoli prima aveva chiamato il «furor proprio» d'ogni artista e d'ogni poeta, ai canoni dei trattatisti e ai precetti della rettorica invalsa nella scuola.

      E l'impulso del Berchet non rimase senza grandi frutti. Alla sua iniziativa personale seguì un'iniziativa più collettiva, più poderosa.

      Come nacque Il Conciliatore? Il Conciliatore fu – il vocabolo stesso lo esprime – un tentativo assai naturale e assai lodevole di trovare il termine medio col quale potessero comporsi ragionevolmente i vari contendenti che già venivano ai ferri corti. La battaglia fra romantici e classici, specialmente a Milano e in Lombardia, cominciava a infervorarsi, a prendere un aspetto di accanimento e minacciava di oltrepassare la misura. Dal