e del Lambruschini continuavano a trionfare contro tutti gli sforzi dei cospiratori interni e contro le timide rimostranze della diplomazia europea. Continuava lo scandalo delle dilapidazioni e dei favoriti, continuava la preminenza nelle cose dello Stato ora del barbiere Moroni, ora del colonnello Freddi, ora dell'agente austriaco Sebregondi, ora del prete Abbo, spergiuro e infanticida. In questa vergogna di cose s'andava rapidamente spegnendo ogni prestigio della sovranità temporale esercitata dal Sommo Pontefice; tanto che, fin dal 1837, l'inviato sardo a Roma, marchese Crosa, non si peritava di scrivere al conte Solaro della Margherita: «È qui comune idea fra le persone che spingono lo sguardo nel lontano avvenire, il pensare che qualora prosegua in questo paese l'attuale ordinamento di cose, debba col tempo aver luogo qualche crisi essenziale; e la ipotesi la più plausibile sarebbe quella di vedere la gran Roma ridotta alla mera supremazia ecclesiastica, non conservando che l'ombra del temporale…» Il sagace diplomatico piemontese intravedeva già, fra gli errori e fra gli orrori del tempo, la soluzione soddisfacente, e, senza confessarlo a se stesso, tradiva il pensiero che, dalla tribuna parlamentare, avrebbe proclamato, ventiquattr'anni dopo, Camillo di Cavour!
Per allora, nulla si mutava e nulla si voleva mutare nello Stato Pontificio, a cui soltanto avrebbe dato una scossa, di proporzioni impreviste, il Papa futuro del 1846. Alle potenze europee, preoccupate di questa perpetua alternativa fra rivoluzioni e reazioni, la curia romana prometteva riforme, col preciso proposito di non attuarle; e i diplomatici d'allora si rassegnavano ad essere ingannati, come si rassegna sempre la diplomazia ad ogni inganno che serva alla pace d'un quarto d'ora.
L'Austria entrava ed usciva dai territorî papali come da casa sua; la Francia occupava Ancona, con gran fracasso di frasi, poi rimpiattava la sua sterile iniziativa dietro le più umilianti dichiarazioni imposte dal cardinale Bernetti. Nel tutto assieme, trionfo di prepotenza, di reazione e d'ipocrisia, da cui la provvidenza storica si preparava a trarre i germi del fatto nuovo.
Poco al di sopra o poco al disotto della politica pontificia stava quella del duca di Modena, Francesco IV; al quale per rifare Cesare Borgia mancò l'audacia e per rifare Filippo II mancò l'intelligenza.
Dell'uno e dell'altro però ebbe l'istinto dispotico, le morbose ambizioni, l'animo freddamente feroce. Regnava da alcuni anni, quando scoppiò in Francia la rivoluzione del 1830. Una grande illusione s'era da quel rivolgimento diffusa nell'animo degli Italiani, specialmente del centro; l'illusione che da Parigi uscisse energico aiuto alle rivendicazioni liberali d'Italia. Il generale Pepe aveva capitanato queste illusioni, destreggiandosi presso il generale Lafayette, perchè accordasse alcuni soccorsi di fucili e di denaro.
Speranze simili erano penetrate anche in un uomo d'alto animo e di larghi concetti, Ciro Menotti, modenese e commerciante di professione. Poco fiducioso in moti popolari di carattere repubblicano, egli non aveva avuto difficoltà ad aprirsi politicamente col suo principe, il duca Francesco IV, di cui conosceva la cupa indole, ma di cui aveva indovinato la segreta ambizione.
Sfiduciato di ottenere il trono di Sardegna, al quale per tanti anni aveva rivolto sguardi ed intrighi, Francesco IV suppose che la rivoluzione di Francia, riaprendo l'èra dei mutamenti italiani, gli avrebbe forse permesso di ricomporsi un trono più ampio, sui dominî dei principati vicini. Anche il titolo di re d'Italia pare sia balenato al suo pensiero. Sicchè, dimentico per un istante de' suoi fanatismi legittimisti, non respinse i discorsi di Ciro Menotti, che sembrava poter essere chiamato da prossimi avvenimenti a notevoli influenze politiche.
Però il prepotente atteggiarsi dell'Austria e il vacillante programma dei nuovi governanti francesi, la cui fierezza svampava nella rettorica parlamentare del generale Sebastiani, fecero accorto l'ambizioso duca della vanità de' suoi sogni. Sicchè, ritraendosi da' primi affidamenti, passò, come accade, a feroci vigilanze intorno al Menotti, di cui aveva sorpreso alcuni andamenti. Il Menotti s'era ingannato di vent'anni, supponendo maturo un popolo a concetti unitarî e fedele un principe ad impegni di libertà. Vistosi a un tratto circondato di diffidenze, dopo le prime larghezze lasciate al suo disegno, non fu più in tempo a rompere le tese fila, e dovette anzi, per necessità di salvezza, precipitare lo scoppio. Il 3 febbraio 1831 l'avviso era dato, e una trentina di congiurati s'erano raccolti in casa Menotti. Ma l'avviso era giunto contemporaneamente anche a cognizione del Duca, il quale inviò soldati e cannoni, fece assalire la casa, uccidere alcuni complici e tradurre incatenato alle sue carceri Ciro Menotti. È del giorno successivo quel terribile dispaccio di Francesco IV al governatore di Reggio: «Questa notte è scoppiata una formidabile rivolta contro di me. I cospiratori sono nelle mie mani. Mandatemi il boja.»
Erano questi i pregiati autografi dei principi d'allora.
Del resto, il trionfo momentaneo delle insurrezioni romagnole e modenesi non riuscì a togliere una vittima alle vendette del duca di Modena. Il quale, fuggendo sul territorio austriaco e ritornando dopo la bufera, ne' suoi dominî, aveva trascinato seco in catene l'infelice Menotti. Il processo aperto da un tribunale statario contro di lui ebbe l'esito che non era difficile prevedere. La mattina del 26 maggio 1832 fu appiccato per ordine dell'implacabile Duca, a cui quell'uomo vivo rappresentava il rimorso d'una politica equivoca.
E questa politica fu anche l'unica, fu l'ultima che desse un qualche rilievo al Ducato di Modena. Il quale era poi cercato con affettata ignoranza sulla sua carta geografica dal re Luigi Filippo, un po' indispettito perchè il principe modenese si fosse impuntato a non riconoscere la sua sovranità. Tempi curiosi, nei quali i principi a cui una rivoluzione riusciva pretendevano essere accettati da sovrani legittimi; mentre poi i principi che in un tentativo di rivoluzione s'erano tuffati credevano disonorarsi riconoscendo principi a cui il tentativo aveva giovato.
Meno feroci, anzi punto feroci, perchè l'ambiente non consentiva ferocia, erano le pressioni esercitate dal gabinetto austriaco sulla famiglia toscana.
Nella casa di Lorena non era minore che in tutte le altre d'Italia la preoccupazione dinastica; ma poichè le miti tradizioni popolari non incoraggiavano tentativi settarî, quel governo cercava mantenersi con politica blanda, addormentando piuttosto che urtando, corrompendo piuttosto che offendendo, cercando di deviare verso istituti di benessere materiale quelle forze intellettuali bramose d'ideali, che nel paese sovrabbondavano.
Era, scrive il Tabarrini «la mediocrità in ogni cosa». Sicchè Gino Capponi patíva «le fiere malinconie dell'ingegno inerte e costretto». «Il principato lorenese», afferma Giuseppe Montanelli «faceva degenerare il popolo toscano».
Il che non pareva sufficiente alla politica del principe di Metternich, il quale avrebbe certamente creato delle sètte dove non esistevano, per darsi la gioia di perseguitarle. Contro il granduca Leopoldo attizzava la diffidenza fra i potentati europei. Il non vedere erette forche in quell'angolo d'Italia gli pareva una debolezza, fomite di prossime rivoluzioni. Quando, nel 1835, il governo granducale mitigò la pena del carcere ad alcuni condannati per causa politica, l'ambasciatore d'Austria a Firenze consegnò un dispaccio ufficiale, in cui era detto che «il Sovrano della Toscana, così operando, incoraggiava il delitto».
Per una sommossa di studenti nell'Università di Pisa, il gabinetto austriaco consigliava riformare gli statuti della pubblica istruzione, sostituendo nella scelta dei professori al criterio della scienza quello della fedeltà politica. Chiese, e pur troppo ottenne, la facoltà d'istituire per suo conto un gabinetto nero per l'apertura delle corrispondenze private. Chiese, e pur troppo ottenne, che si sopprimesse l'Antologia e si sbandisse da Firenze Niccolò Tommasèo. Chiese, e pur troppo ottenne, crescendo colle rassegnazioni le esigenze, che fossero arrestati il Guerrazzi, il Bini, il Salvagnoli, il Contrucci e parecchi altri, processandoli per aderenze settarie, che non furono mai potute provare. Perfino il Congresso dei Dotti, tenutosi in Pisa nel 1844, fu argomento di fieri rabbuffi alla debolezza del principe che lo aveva concesso. E quel filosofo del maresciallo Radetzki, scrivendo all'ambasciatore austriaco in Firenze, considerava il Congresso di Pisa come «un'istituzione destinata a travagliar gli animi in segreto per gettare le fondamenta dell'opera infernale della rigenerazione italiana».
Sicchè non è meraviglia se la politica austriaca avesse anche immaginato, circa la Toscana, ipotesi più ardite e più avide, quando pareva che al granduca Leopoldo mancasse la prole. Le manifestava senza ambagi l'imperatore Francesco al Granduca, dicendogli: «Mi spiace dirvelo, ma non avvi rimedio; la Toscana diverrà provincia austriaca». Fortunatamente – guardate di che avverbi