Quello che avviene degli individui, doveva anche avvenire nella grande collettività del popolo italiano. Non è nell'orgasmo, non è nell'esaltazione, non è tra le luminarie e i baccani e le ansie dell'aspettazione, che la musa (la quale come disse Parini, formulando un canone eterno dell'arte «orecchio ama pacato e mente arguta e cuor gentile») poteva meditare e comporre il grande carme degno degli avvenimenti.
La poesia, lo ripeto, fu nei fatti. E se qualcheduno di questi fatti vogliamo ricordare, io potrei dirvi che la più alta poesia del Quarantotto esalò da un meraviglioso accordo, che i fatti inaspettati fecero balenare alle anime pensose e aspettanti di tutto il mondo civile, tra l'amore della libertà e l'amore della religione. Fu davvero un momento storico, meraviglioso, o Signore; perchè, se voi percorrete la storia del nostro Risorgimento, voi troverete che nessuno ha mai detto e spero che nessuno dirà mai che fra amor di patria e religiosità vi sia un dissidio incompatibile. Ma è un fatto, che una certa diffidenza fra l'una cosa e l'altra vi è sempre stata, e purtroppo vi è ancora. Da Dante Alighieri, di cui il cardinale Beltrando Del Poggetto voleva disperder le ceneri perchè lo aveva in odore di eretico, alle censure ecclesiastiche dei libri di Antonio Rosmini, i sintomi e i sospetti di questo dissidio (non diciamo ora per colpa di chi) si sono sempre, più o meno, manifestati in Italia. E non fu questa l'ultima causa (diciamolo con coscienza d'uomini liberi) delle nostre divisioni e della debolezza nostra di fronte alle altre nazioni!
Poco prima dell'epoca di cui ci occupiamo, Giuseppe Mazzini aveva inalberata una fiera tradizione ghibellina, che non ammetteva patto nè temporale nè spirituale col sacerdozio cattolico. Cesare Balbo invece questo patto lo accettava e lo voleva. Si formò insomma una tradizione neoguelfa accanto a quella tradizione ghibellina; e gli animi ne rimanevano perplessi e dolorosi; e le coscienze timide non sapevano a cui fidarsi. L'amore di patria, come tutte le sante cose che la natura istilla nel cuore dell'uomo, mandava le sue querule voci, ma queste voci parevano superate e fatte tacere da una voce anche più autorevole… Quando, a un tratto, ecco che un vento liberatore spazza via tutta questa nebbia e nel cielo rasserenato appaiono congiunte, affratellate, la patria e la fede, perchè Pio IX dal balcone del Vaticano aveva benedetto l'Italia… Ecco uno degli aspetti veramente poetici del Quarantotto! Un altro aspetto egualmente poetico di questa epoca, anch'esso intimamente connaturato colla storia, risultò da questo, che il movimento politico redenzionista suscitatosi nella penisola e in essa maturato con lunga preparazione, mercè l'apostolato del Manzoni, del Balbo, del Gioberti, del Rosmini, del Troia, e dello stesso Mazzini, si differenziò dai movimenti anteriori per la sua maggiore modernità. Guardate infatti: dal '96 al '31 gli Italiani erano insorti sempre in nome di un ideale classico molto austero e molto elevato, ma un po' troppo lontano dalla immediata percezione del nostro sentimento. Era il grande ideale classico di Roma antica, erano i fasci, i littori, la grande Repubblica conquistatrice del mondo, e tutto quell'insieme di reminiscenze e di anacronismi, che il Giusti aveva già schernito colla frase «i grilli romani.» Invece il Quarantotto, preparato da tutta una letteratura e da tutta una cultura italiana più moderna, richiamò il sentimento della nazione a qualche cosa di meno devulso, di meno separato da noi. Per forza di avvenimenti l'Italia del Quarantotto non mira più a Roma antica, mira piuttosto al Medio Evo; voglio dire a quello che il Medio Evo conteneva di tradizione ancora viva, ancora permanente in mezzo a noi. Lo stesso neoguelfismo aiutava in questo. Quindi i poeti evocano, piuttosto che Roma antica e Bruto e i Gracchi, la Lega Lombarda e le Crociate; e i giovani volontari vanno al campo avendo sul petto una croce fiammante che significa insieme un ideale politico e religioso. Il Quarantotto evoca i liberi Comuni d'Italia, insorgenti eroicamente in nome dei loro civili diritti, in nome dei loro focolari e delle loro chiese, e combattono e vincono l'Imperatore. Legnano, Roncaglia; ecco i nomi che fervono nelle menti, che splendono alla fantasia come dei fari!
In questo il romanticismo ebbe la sua parte. Tutte quelle evocazioni storiche uscite dalle liriche, dai poemi e dai romanzi, avevano familiarizzato le fantasie dei nostri giovani e delle nostre donne con quanto di più cavalleresco e di più poetico aveva il Medio Evo. Tra quel cavalleresco medioevale e i nuovi sentimenti suscitati dai fatti nuovi esisteva una reale affinità, una corrente di simpatie e di impulsi, che la classica Roma non avrebbe più potuto suscitare. Noi non guardavamo più al Campidoglio e alla Legione antica, guardavamo al Carroccio, guardavamo ai cavalieri della Morte, che avevano giurato di morir tutti piuttosto che permettere che l'altare del Comune benedetto dal Vescovo cadesse in mano dello straniero. Un potente alito di poesia cristiana correva nell'aria ed empiva i cuori.
Ma, come opera d'arte, io ve lo ripeto, la grande poesia non nacque e forse non poteva nascere. Mancava quella temperatura ideale nè troppo calda nè troppo fredda, che è condizione necessaria al nascere e maturarsi della pura opera d'arte, della poesia veramente degna di vivere nei secoli. Pensate inoltre, o Signore: il Quarantotto fu una gran luce, ma ebbe ancora, come sapete, le sue fosche ombre. Io mi sono astenuto da qualunque giudizio politico durante il mio discorso e non declinerò ora da questo mio proposito, perchè voglio lasciare intera libertà ai conferenzieri che mi succederanno di giudicare uomini e cose; ma credo di non rendere che un omaggio alla verità storica da tutti riconosciuta, ripetendovi che il Quarantotto, se fu una gran luce, ebbe ancora delle ombre tristissime. Sotto tutti quei fiori, molti rettili strisciarono… E per non essere trascinato dall'attraentissimo argomento, mi contenterò di ricordare una sentenza di Massimo d'Azeglio, il quale, scrivendo al suo amico Pantaleoni, diceva: «Credevamo di essere degli uomini e ci siamo accorti di essere dei fanciulli.» La sentenza non potrà, io credo, essere tacciata di severità.
E venne infatti la catastrofe, la grande catastrofe punitrice. Vennero l'assassinio di Rossi, le sconfitte Lombarde, le discordie pazze, le illusioni fanciullesche, i tumulti minacciosi, la fuga a Gaeta, e finalmente Novara, la tragica Novara. Carlo Alberto, dopo avere per un giorno intero cercato la morte sugli spaldi della fulminata città, dovette persuadersi che, se l'onore era salvo, tutto il rimanente era perduto! Ma pensò che egli poteva ancora rendere un grande servigio alla sua povera Italia, togliendosi di mezzo e lasciando il figliuolo, senza rancori e preconcetti, libero a trattare col vincitore i patti della triste resa.
Poi seguì un periodo che per sè stesso potrebbe essere argomento di un lungo discorso. Il giovane Re sorgeva appena sul trono, e d'ogni intorno era circondato da insidie, da accuse, da bieche discordie, da diffidenze innominabili. Ebbene, o Signore, appena comincia l'epoca dei tristi ricordi, ecco che la poesia, come vera e grande opera d'arte, accenna a rifiorire. Giovanni Prati, che è stato mediocre nel canzoniere di Carlo Alberto, diventa il poeta sacro dell'anima italiana quando intuona una solenne e melanconica melodia all'arrivo delle sue fredde spoglie dalla terra dell'esilio, dove il Re magnanimo era andato a morire. Comincia, o Signore, la divina ispirazione delle memorie! Il poeta, rivolgendo uno sguardo indietro, trova accordi inusitati e crea una visione che è una delle più potenti, non dubito di affermarlo, che abbiano mai lampeggiato a fantasia di poeta italiano. Tutta la Trenodia pel ritorno delle ceneri di Carlo Alberto è un misto di palinodie dolenti e di speranze generose, di rimproveri ai popoli, di rimproveri ai Principi. Per un momento il poeta accenna a voler riunire gli uni e gli altri in un sentimento profondo di pietà e di commiserazione scambievoli, quasi col proposito di riprendere insieme, ammaestrati dai comuni errori, la via aspra e gloriosa. Ma poi, avvertito da un istinto infallibile che lo spinge a fissare gli occhi nell'avvenire, Giovanni Prati volge la sua ultima parola al giovane Re del Piemonte. E anche questa parola, sussurrata all'orecchio del Monarca, in mezzo a tante insidie, a tanta diffidenza, a tanti maliaugurî, che, come sinistri augelli, allora svolazzavano intorno al trono, anche questa parola è improntata di un profondo carattere di poesia: poichè è la poesia della speranza!
Vittorio, Vittorio! Tu giovane Anteo,
Per questa dolente nel fiero torneo,
Tu l'ultima lancia sei nato a spezzar!
La croce sabauda, che ornò sette troni,
Dinanzi alla furia de' tuoi battaglioni,
Raggiando sull'armi l'antico splendor,
Segnal di vittoria per gli occhi dei forti,
Segnal d'allegrezza per l'ossa dei morti,
Verrà benedetta sull'Adige ancor!
Ed ecco che la poesia italiana, la quale nell'orgasmo