Annie Vivanti

Vae victis!


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Frida, smetti di sgridarmi, che mi fai cadere,» gridò Mirella, e infatti, dopo varie terrificanti oscillazioni, la bicicletta descrisse un rapido semicerchio, e corse giù nel mare.

      Mirella fu molto in collera con Frida e colla bicicletta, e coll'uomo-scimmia; questi, ridendo coi denti molto bianchi nella faccia molto nera, la rimise in sella.

      Frida si stancò presto di seguirli e andò a sedersi vicino ad una barca capovolta a leggere «Der Trompeter von Säkkingen».

      Säkkingen! Mentre gli occhi di Frida sfioravano le pagine nitidamente stampate e s'indugiavano sull'incisione d'un campanile e d'un ponte, l'anima sua ritornava alla piccola città lontana, sul Reno. Perchè Frida, come il famoso trombettiere dello Scheffel, era oriunda di Säkkingen; i suoi piedi, calzati di solide e quadre scarpe tedesche, avevano barcollato, trotterellato, corso, e passeggiato nelle diverse età di sua vita, su quel famoso ponte coperto; ella s'era affacciata, coi gomiti sul davanzale, a quelle piccole finestre infiorate, mandando i suoi sogni di fanciulla a navigare sulle acque sonnolenti del Reno. Era passata, tutte le mattine andando a scuola, davanti al monumento piccolo e tozzo di Victor von Scheffel; ed ogni sera tornando a casa aveva alzato gli occhi alle finestre chiuse di quella bianca casa accanto al ponte che era stata quella del poeta. Säkkingen – colle sue strade bianche e pulite, la sua Kaffee-Halle dipinta in bianco e celeste, le sue panetterie olezzanti di freschi Kuchen e Schnecken.... Frida alzò gli occhi dal libro per gettare uno sguardo pieno d'ira e di rancore sulle danzanti acque del Mare del Nord, sulla piana e ridente spiaggia belga, sulle figurette lontane di Chérie e di Mirella, sull'uomo-scimmia, e perfino sullo scodinzolante Amour e i suoi compagni d'iniquità. Li odiava tutti. Sì, li odiava. Egoisti tutti quanti, volgari, frivoli, senza poesia nell'anima. In questo paese non c'era senso religioso; non c'era senso d'ordine; la cucina era pessima… Frida scosse amaramente il capo: «Das Land das meine Sprache spricht....», ella mormorò, nostalgica e sospirosa.

      Poi riprese il suo libro, e lesse le considerazioni che faceva Hidigeigei, gatto e filosofo, intorno alla primavera e all'amore:

      Warum küssen sich die Menschen?

      Warum meistens nur die Jungen?

      Warum diese meist im Frühjahr?…

* * *

      Quella sera Mirella udendo il fischio del portalettere andò ad aprirgli. Egli le consegnò due lettere, e la bimba – nascondendone una dietro alla schiena – tornò nel salotto dove Frida e Chérie sedevano lavorando. Lesse ad alta voce, con esasperante lentezza, l'indirizzo dell'altra:

      «Mademoiselle – Chérie – Brandès – Villa – Esther....»

      «Dà qui, dà qui», esclamò Chérie, allungando la mano impaziente.

      «E' di Lulù», disse Mirella, porgendo la lettera a Chérie e tenendo l'altra ancora nascosta dietro le spalle.

      «Lulù! Che modo è questo di parlar di vostra madre!» rimbrottò Frida.

      «Ma se a lei piace!» rispose ridendo Mirella. «Del resto anche Chérie la chiama così.»

      «Chérie è sua cognata, non è sua figlia», sentenziò Frida; poi scorgendo d'un tratto l'altra lettera in mano a Mirella: «Per chi è quella lettera?»

      «Hochwolgeborenes Fräulein Frida Rothenstein», declamò Mirella; ma Frida era già balzata in piedi, e le strappò la lettera di mano.

      «Uh, che sgarbata!» fece Mirella. «E chi è che ti scrive? E' la nostra carta da lettere; ma non è la scrittura di Lulù, e neppure di Papà. Chi è che ti scrive tutte quelle sciocchezze di hochwolgeboren sulla busta?»

      Nessuno rispose. Con occhi intenti Frida e Chérie leggevano le loro lettere. E Mirella continuò il suo monologo. «Scommetto che è di Fritz. Il domestico di Papà! Immaginiamoci! Una hochwolgeborene Signorina che riceve lettere da un servitore!»

      Frida non si degnò di rispondere; nè sollevò gli occhi dal foglio che teneva in mano; eppure – Mirella lo vedeva – non vi era che una riga di scritto. Quattro o cinque parole, nulla più. Ma Frida sedeva immobile, impietrita, come se quel breve messaggio l'avesse mutata in una statua di sasso.

      Ed ora Chérie, che aveva finito di leggere la sua lettera, sollevò il viso costernato.

      «Frida! Mirella!… Sapete che cosa accade? Dobbiamo tornare a casa domani.»

      «Domani?» gridò Mirella. «Ma cosa dici? Papà ha detto che dobbiamo star qui due mesi e non siamo arrivate che quattro giorni fa!»

      «Lo so. Ma la tua mamma scrive che si deve tornare subito a casa. Hai sentito, Frida?»

      Frida nè rispose, nè alzò gli occhi.

      «Ma perchè? perchè?» ripeteva Mirella quasi piangendo. «Ma dunque non lo sa Lulù che abbiamo fissato di festeggiar qui il tuo compleanno?… E che Lucilla e Jeannette e Cricri vengono tutte qui apposta?»

      «Lo sa, lo sa», rispose Chérie volgendo i suoi dolci occhi perplessi dal visino sconcertato di Mirella al volto impassibile di Frida. «Ma dice.... dice che sta per scoppiare la guerra.»

      «La guerra? Ebbene? E che cosa c'entra con noi la guerra?» esclamò Mirella risentita. «Oh, che rabbia, che rabbia! E dire che avevo imparato a nuotar tanto bene, toccando terra con un piede solo!»

      II

      L'indomani il sole si alzò caldo ed iroso. Era il trenta di luglio. Alle dieci Frida aveva fatto tutti i bagagli.

      Amour, confortato da un osso, fu messo nella sua cesta da viaggio, dove stava assai pigiato; ma un po' con carezze, un po' con qualche schiaffo, il coperchio scricchiolante potè finalmente essere chiuso sopra il suo dorso tondo.

      Poi bisognò aspettare la carrozza, ordinata per telefono ad Ostenda fin dalla sera innanzi.

      Ma la carrozza non arrivava. Alle undici Chérie corse all'ufficio del telefono e parlò, con molta severità, alla Rimessa Boulant di Ostenda.

      «Eh bien? Questa carrozza? L'abbiamo ordinata per le dieci. Viene si o no?»

      «Non viene», rispose una voce brusca.

      «Non viene?!»

      «Nossignora». Indi, in tono più sommesso, quasi confidenziale: «E' stata requisita».

      «Cosa vuoi dire? Allora mandatene un'altra», disse Chérie. Ma Ostenda aveva tolto la comunicazione e Chérie se ne tornò mortificata e attonita a Villa Esther, dove Frida con aria fosca, e Mirella piagnucolante, l'aspettavano sedute sui bauli nella stretta anticamera di Madame Guillaume.

      «Non c'è carrozza», annunzio Chérie.

      «Non c'è carrozza?» esclamò Frida.

      «E perchè no?» chiese Mirella.

      «Ma… non so; ne hanno fatto qualche cosa....» rispose incerta Chérie. «Non ho capito bene. «E' stata restituita.... o ripulita, o che so io».

      A mezzogiorno la buona Madame Guillaume trovò un facchino che caricò i bagagli su una carretta a mano e li trasportò alla stazione del tram di Westende. E il tram portò le viaggiatrici, e il bagaglio, e Amour nella sua cesta, ad Ostenda, dove un altro facchino con un'altra carretta a mano prese bagagli e cesta e li portò alla stazione ferroviaria.

      Videro subito che Ostenda aveva un aspetto strano e nuovo. Le strade erano affollate, ma non dalla solita folla di languide demi-mondaines ed oziosi viveurs. No; le strade erano piene di gente affaccendata, di soldati a piedi e a cavallo; automobili, motociclette, carri e furgoni ingombravano le vie; e dietro a questi venivano contadini conducendo a mano lunghe file di cavalli e di muli.

      Per la Rue Albert, con rapido passo di marcia, scendeva un drappello di Guardie Civiche, coi loro cappotti lunghi e l'incongruo cappello duro da borghese fermato sotto il mento dalla striscerella di cuoio. Gruppi d'ufficiali arrivati ad Ostenda pochi giorni prima per le gare internazionali di tennis, fermi all'angolo dell'Avenue Léopold, parlavano tra di loro sommessi e concitati.

      «Ma che cos'hanno tutti?», chiese