Анна Радклиф

I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4


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potrebbe cagionare al loro matrimonio, nè prevedeva come tale informazione avrebbe potuto indurla a rompere ogni loro legame. Oppresso all'idea di questa eterna separazione, lacerato dai rimorsi, attendeva il secondo abboccamento in uno stato quasi di delirio; ma sperava però sempre di ottenere a forza di preghiere qualche mutamento nella di lei risoluzione.

      La mattina le fece domandare a che ora avrebbe potuto riceverlo: quand'essa ricevè il biglietto, era col conte, che approfittò del nuovo pretesto per riparlarle di Valancourt. Vedeva la disperazione della giovine amica, e temeva che il coraggio l'abbandonasse. Emilia rispose al biglietto, ed il conte ritornò sul proposito dell'ultima conversazione. Egli parve temere le tentazioni di Valancourt, e le disgrazie alle quali si esporrebbe per l'avvenire, se non resisteva ad un dispiacere presente e passaggiero: queste ripetute ammonizioni potevano sole premunirla contro gli effetti della sua affezione, ed ella risolse di seguire i di lui consigli.

      Giunse alfine l'ora dell'abboccamento: Emilia si presentò sostenuta nel contegno, ma Valancourt, troppo agitato, restò qualche minuto senza poter parlare; le sue prime frasi furono preghiere, lamenti, rimproveri contro sè medesimo; in seguito le disse: « Emilia, vi ho amata, e vi amo più di me stesso; son rovinato per colpa mia, ma intanto non posso negare ch'io preferissi trascinarvi in un'unione infelice, anzichè soffrire, perdendovi il castigo che merito… Io sono un infelice, ma non voglio più esser un vile; non cercherò più di smovervi dalla vostra risoluzione colle istanze d'una passione egoista. Io rinunzio a voi, Emilia, e cercherò di consolarmi, pensando che, se sono disgraziato, voi potete almeno esser felice. Non ho, è vero, il merito del sacrifizio, e non avrei mai avuta la forza di farvi libera, se la vostra prudenza non l'avesse esigiuto. »

      La fanciulla procurava di rattenere le lagrime, e stava per dirgli: « Voi parlate ora come facevate una volta. » Ma restò in silenzio.

      « Perdonatemi, Emilia, » ripigliò egli, « tutte le inquietudini che vi ho cagionate. Pensate talvolta al povero Valancourt, e ricordatevi, che la di lui sola consolazione sarà di sapere che le sue follie non vi resero infelice. »

      Le lagrime sgorgarono in copia dagli occhi di Emilia, la quale si sforzò di farsi coraggio e por fine ad un colloquio che aumentava la loro comune afflizione. Valancourt la vide piangere mentre si alzava; fece un nuovo sforzo per contenere i propri sentimenti, e calmare quelli di Emilia.

      « La rimembranza di questo doloroso momento, » le diss'egli, « sarà in futuro la mia salvaguardia. L'esempio e la tentazione non potranno più sedurmi. La memoria di quel pianto che versate per me, mi darà la forza di superare ogni pericolo. »

      Emilia, alquanto consolata da tale assicurazione, rispose:

      « Noi ci separiamo per sempre; ma se la mia felicità vi è cara, ricordatevi ognora che nulla vi potrà maggiormente contribuirvi colla certezza che voi riacquistaste la vostra propria stima. »

      Valancourt le prese la mano, aveva gli occhi lagrimosi, e l'addio che voleva pronunziare veniva soffocato dai singulti. Dopo qualche momento, Emilia, tutta commossa, disse:

      « Addio, Valancourt, possiate essere eternamente felice! Addio, » ripetè nuovamente volendo ritirare la mano; ma egli la teneva stretta fra le sue, e la bagnava di lacrime. « Perchè prolungare questi momenti? » continuò ella, con voce inarticolata; « essi son troppo penosi per noi.

      – Troppo, sì, troppo, davvero, » sclamò Valancourt, lasciandole la mano, e abbandonandosi sulla sedia, celossi la faccia. Dopo un lungo intervallo, durante il quale Emilia piangeva amaramente e Valancourt lottava contro il suo dolore, egli si alzò di nuovo, e prendendo un accento più fermo, disse: « Io vi affliggo, ma l'ambascia che provo dev'essere la mia scusa. Addio, Emilia, voi sarete sempre l'unico oggetto della mia tenerezza. Pensate qualche volta all'infelice Valancourt, almeno per compassione, se non per istima, giacchè cosa sarebbe per me il mondo intiero senza di voi e senza la vostra stima? Cara Emilia, addio per sempre. »

      Le baciò la mano, la guardò per l'ultima volta e fuggì precipitosamente.

      Emilia restò nell'atteggiamento in cui l'aveva lasciata, col cuore così oppresso, che poteva appena respirare; udì il rumore dei di lui passi indebolirsi mano mano. Fu scossa da tale stato dalla voce della contessa che parlava in giardino. Allora versò lagrime che la sollevarono, e così, ripreso vigore, ebbe la forza di recarsi alla sua camera.

      CAPITOLO XLI

      Torniamo a Montoni, la cui sorpresa e rabbia per la fuga di Emilia fecero tosto luogo ad interessi più urgenti. Le sue depredazioni eransi talmente moltiplicate, che il senato di Venezia, malgrado la sua debolezza e l'utilità, che all'occasione avrebbe potuto ritrarre da Montoni, non volle sopportarle più a lungo. Fu decretato pertanto di distruggere le di lui forze e punire il suo brigandaggio. Un grosso stuolo di milizie accingevasi a marciare contro il castello di Udolfo. Un giovane ufficiale, animato contro Montoni dal risentimento di qualche ingiuria particolare, o fors'anco dal desiderio di distinguersi, chiese udienza al ministro che dirigeva quest'impresa. Gli rappresentò che Udolfo era un forte situato in un luogo troppo formidabile per essere preso d'assalto. Un corpo di truppe non poteva avvicinarvisi senza che Montoni ne fosse avvertito. L'onore della repubblica si opponeva al piano d'assediare quel castello con un esercito regolare. Bastava un pugno di gente risoluta, ed era probabilissimo d'incontrare ed attaccare Montoni ed i suoi fuori delle mura, ovvero avvicinandosi al castello colla cautela compatibile con pochi soldati, sarebbe stato facile trar vantaggio da qualche tradimento o negligenza, per penetrare d'improvviso nell'interno.

      Il piano, seriamente meditato, fu affidato allo stesso ufficiale che l'aveva concepito. Dapprincipio egli usò l'astuzia; si accampò nei dintorni di Udolfo e procurò guadagnarsi l'assistenza de' vari condottieri. Non ne trovò neppur uno che non fosse pronto a tradire un padrone imperioso, per assicurarsi così il perdono del senato. Informatosi del numero delle truppe di Montoni, seppe che i suoi ultimi successi le avevano aumentate d'assai. Non iscoraggitosi per questo, appiccò intelligenze nell'interno della piazza, che gli procurarono la parola d'ordine, e mescolatosi colla sua gente ai seguaci di Montoni, potè introdursi nel castello e sorprenderlo, mentre un altro stuolo de' suoi, dopo una lieve resistenza, faceva cedere le armi alla guarnigione. Tra le persone prese con Montoni, trovavasi Orsino: avendo saputo, dopo l'inutile sforzo fatto per rapire Emilia, che quello scellerato aveva raggiunto Montoni ad Udolfo, Morano ne aveva avvertito il senato. Il desiderio di prendere quest'uomo, autore dell'assassinio d'un senatore, fu uno dei motivi che fecero accelerare l'impresa, il cui successo riuscì gradito tanto, che, malgrado i sospetti politici e l'accusa segreta di Montoni, il conte Morano fu rimesso in libertà. La celerità e facilità di questa spedizione prevennero il chiasso e le dicerie, sicchè Emilia, in Linguadoca, ignorò la disfatta e l'umiliazione del suo crudele persecutore.

      Il di lei spirito era sì oppresso da tanti affanni, che verun sforzo della sua ragione, valea a superarne l'effetto. Villefort non risparmiava alcun mezzo per consolarla. L'invitava spesso a passeggiare con lui e colla figlia, e tenevale acconci discorsi sperando sradicare gradatamente il soggetto del suo dolore e risvegliare in lei nuove idee. Emilia, vedendo in lui un vero amico, il protettore della sua gioventù, lo prese ad amare con affetto figliale.

      Il di lei cuore si apriva con Bianca come con una sorella. La bontà e semplicità di questa fanciulla compensavala abbastanza della privazione di qualche vantaggio più lusinghiero. Passò qualche tempo prima che Emilia potesse distrarsi tanto dal pensiero di Valancourt, per ascoltare l'istoria promessale dalla vecchia Dorotea, la quale in fine, premurosa di narrargliela, glie ne fece sovvenire, e Emilia l'aspettò l'istessa sera.

      Infatti, dopo mezzanotte, giunse Dorotea, e dopo pochi minuti di riposo cominciò così il suo racconto: « Sono ormai venti anni che la signora marchesa arrivò in questo castello. Quanto era bella allorchè entrò nella sala ov'eravamo riuniti per riceverla! Quanto sembrava felice il signore marchese! Chi l'avrebbe potuto indovinare! Ma che dico? Signora Emilia, mi parve che la marchesa fosse un poco afflitta. Lo dissi a mio marito, ed egli mi rispose che sbagliava: non glie ne parlai più, e tenni per me le mie osservazioni. La signora marchesa aveva all'incirca la vostra età, e, come l'ho spesso notato, vi somigliava moltissimo. Il signor marchese diede feste splendide, e pranzi così magnifici, che da quel tempo il castello non fu mai così brillante. Io allora era giovine