cambiò. Ogni centimetro quadrate di terreno arabile fu sfruttato al meglio grazie alla brutale efficienza degli Offasii. Le città si svilupparono, pianificate e progettate per essere perfette. I sistemi di trasporto e comunicazione divennero universali.
Poi, un giorno, gli Offasii se ne andarono. Fu un esodo ordinato e ben pianificato, senza che fosse detta alcuna parola agli stupefatti Zartici. Un giorno gli Offasii stavano gestendo il mondo con i loro consueti metodi sbrigativi, il giorno successivo erano saliti con calma sulle loro enormi astronavi—che erano rimaste inutilizzate dal giorno del loro arrivo— ed erano partiti verso lo spazio. Lasciarono dietro di loro tutte le loro opere, le loro città, le fattorie, le macchine. Lasciarono anche una razza di ex schiavi sorpresi e molto perplessi.
Gli Zartici all’inizio non poterono credere che i loro padroni se ne fossero veramente andati. Si riunirono nel timore che questa potesse essere una qualche nuova e subdola forma di tortura. Le settimane passarono e gli Offasii non comparvero da nessuna parte. Nel frattempo, c’erano le macchine e i raccolti che richiedevano cure e manutenzioni. Quasi per un riflesso condizionato tornarono ai loro soliti compiti.
Passarono parecchi secoli, e gli Zartici cominciarono a usare la loro intelligenza per proprio conto. Esaminarono i macchinari che avevano lasciato gli Offasii e scoprirono i principi della scienza; a partire da ciò, migliorarono e adattarono le macchine ai loro scopi e ai loro usi. Svilupparono una propria cultura. Usarono il loro intelletto per costruire sistemi filosofici e dedicarsi al pensiero astratto. Svilupparono i propri svaghi e i propri piaceri. Cominciarono a vivere la vita confortevole di una specie intelligente che dominava il proprio pianeta.
Sotto questo successo, però, c’era sempre una paura: la paura degli Offasii. Secoli di oppressione crudele avevano lasciato il segno sulla psiche degli Zartici. Cosa fare se gli Offasii fossero tornati un giorno? Non avrebbero visto di buon occhio l’usurpazione del loro equipaggiamento da parte degli schiavi arrampicatori. Avrebbero ideato nuove e più orrende torture e gli Zartici, come sempre, avrebbero sofferto.
Fu in quest’atmosfera di paura e curiosità che maturò il passo più audace che la razza degli Zartici avesse mai intrapreso— il Progetto di Esplorazione Spaziale.
CAPITOLO 1
Un tratto a due corsie della California 1 correva lungo la costa. A ovest, talvolta solo a una cinquantina di metri dalla strada, c’era l’oceano Pacifico, che quietamente lambiva con le sue onde la sabbia e le rocce della spiaggia statale di San Marcos. A est, una scogliera di bianca e nuda roccia si ergeva per un’altezza di una sessantina di metri. Al di là della scogliera si stendeva una catena di monti. Non erano molto alti, il più elevato raggiungeva a malapena i trecento metri sul livello del mare, ma erano sufficienti per i residenti locali. Le montagne erano coperte di boschi radi di cipressi e di un intricato sottobosco, con altri tipi di vegetazione che a intervalli irregolari cercavano con audacia di farsi spazio.
In cima alla scogliera, dominante l’autostrada e l’oceano, c’era un piccolo cottage in legno. Si trovava al centro di uno spiazzo, un piccolo segnale di presenza umana in mezzo alla natura. Una macchina era parcheggiata accanto al cottage sulla ghiaia che era stata sparsa intorno al perimetro della struttura. La ghiaia si estendeva per una decina di metri, poi lasciava spazio alla roccia fino all’entrata degli alberi circa cinque metri più avanti.
C’era una stretta strada polverosa che saliva dall’autostrada al cottage. Non saliva diritta ma sinuosa come un serpente in mezzo agli alberi fino allo spiazzo. Si potevano notare un paio di fari che risalivano lungo la strada, scomparendo e riapparendo quando la macchina affrontava le varie curve o passava attraverso i gruppi di cipressi.
Stella Stoneham era in piedi nell’oscurità, e osservava i fari che si avvicinavano. I suoi organi interni stavano cercando strenuamente di non aggrovigliarsi man mano che i fari si avvicinavano. Tirò un’ultima lunga boccata alla sigaretta e la schiacciò nervosamente con il piede sulla ghiaia. Se c’era una persona che non aveva proprio voglia di vedere in quel momento era suo marito, ma sembrava che non avesse scelta. Aggrottò la fronte e guardò il cielo. La notte era piuttosto limpida, solo poche nuvole oscuravano le stelle. Guardò in basso verso i fari. Sarebbe arrivato in un minuto. Sospirando, tornò all’interno del cottage.
L’interno normalmente la rallegrava con la sua luminosità ma, quella sera, era una qualità che non fece altro che aumentare la sua depressione. La stanza era grande e spoglia, e dava quell’illusione di spazio e libertà che Stella aveva sempre voluto. C’era un lungo divano marrone appoggiato a una parete, con, al suo fianco, un piccolo tavolo da lettura e una lampada. Sull’altro angolo, andando in senso orario, c’era un lavandino e una piccola stufa; un armadio per le provviste appeso sulla parete vicino a loro, di legno massiccio e scolpito in modo elaborato, con volute e piccoli gnomi rossi ai lati che lo sorreggevano. Sulla parete c’era anche una rastrelliera di utensili da cucina assortiti, ancora scintillanti per la mancanza di uso. Proseguendo intorno alla stanza, nel terzo angolo, c’erano dei mobili da cucina bianchi disposti con cura. La porta sul retro che dava sulla camera da letto e sul bagno era per metà socchiusa, con la luce dalla stanza principale che riusciva a penetrare solo leggermente nel buio oltre alla soglia. Infine, c’erano una scrivania con una macchina da scrivere, un telefono e una vecchia sedia pieghevole accanto a essa nell’angolo più vicino alla porta. Il centro della stanza era spoglio, con l'eccezione di un tappeto marrone sfilacciato che copriva il pavimento di legno. Il posto non aveva molto a cui aggrapparsi, Stella lo sapeva, ma se ci sarebbe stata una lotta —come sembrava sarebbe accaduto— sarebbe stato meglio gestirla sul proprio territorio.
Si sedette sul divano e si rialzò immediatamente. Camminò avanti e indietro lungo tutta la stanza, chiedendosi cosa avrebbe fatto con le mani quando avrebbe parlato o ascoltato. Gli uomini, almeno, erano così fortunati da avere le tasche. Fuori sentì la macchina far scricchiolare la ghiaia fino a raggiungere quasi la porta del cottage e poi fermarsi. Si aprì uno sportello che poi fu chiuso con violenza. I passi di un uomo salirono pesantemente i tre gradini davanti alla casa. La porta si spalancò e suo marito entrò in casa.
* * *
Questo era l’undicesimo sistema solare che avrebbe esplorato personalmente, e ciò significava che, per Garnna iff-Almanic, il compito di trovare ed esaminare pianeti era diventato un lavoro di routine, per quanto esotico potesse sembrare, Gli Zartici lo avevano addestrato per anni prima che gli fosse permesso di entrare nel Progetto. C’era stato, prima di tutto, il rigoroso allenamento mentale che avrebbe permesso alla combinazione di macchinari e farmaci di proiettare la sua mente al di fuori del suo corpo fin nelle più remote profondità dello spazio. Un Esploratore, però, doveva essere addestrato in molte altre cose. Doveva tener traccia del suo percorso nel vuoto, nel tentativo di localizzare un nuovo pianeta prima e nel ritrovare di nuovo la strada verso casa poi; questo richiedeva un’approfondita conoscenza della navigazione nello spazio. Doveva riuscire a classificare al volo il tipo generico di pianeta che stava esplorando, il che richiedeva conoscenze molto aggiornate sulla scienza, in costante crescita, della planetologia. Gli era poi richiesto di stendere una relazione sulle forme di vita, se esistenti, che abitavano il pianeta; questo comportava una conoscenza della biologia. E, nel caso il pianeta ospitasse forme di vita intelligente, doveva essere in grado di descrivere il livello della loro civiltà con poco meno di un’occhiata —e questo richiedeva che venisse fatto nel modo più libero possibile da pregiudizi e paure personali, visto che le civiltà aliene avevano modi diversi di comportamento che potevano portare un normale Zartico fino quasi ad avere un attacco isterico.
Soprattutto, però, si doveva superare l’istintiva paura degli Zartici nei confronti degli Offasii, e questo richiedeva l’addestramento più difficile di tutti. La sua mente aleggiò sopra questo nuovo sistema solare, analizzandone le sue possibilità. Si trattava dell’esplorazione più distante mai fatta fino a quel momento, ben oltre un centinaio di parsec da Zarti. La stella era di grandezza media una piccola cosa gialla —del tipo che di solito era associata alla presenza di un sistema di pianeti. Ma era da vedere se anche questo sistema aveva veramente dei pianeti... Garnna fece mentalmente una smorfia. Questa era sempre la parte della missione che odiava di più.
Cominciò