Federica Cabras

E Non Vissero Felici E Contenti


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p>Federica Cabras

      E (non) VISSERO FELICI E CONTENTI

      Pubblicato da Tektime

      Prologo

      «Be’ sei pronta?», disse lui mentre la aspettava.

      Il suo tono non tradiva agitazione né rancore né impazienza. Era calmo, pacato come forse non era mai stato. Ingessato in un completo alla moda e con indosso un profumo costoso dall’aroma dolce non vedeva l’ora, finalmente, di godersi quella serata. Pensava ci fosse un che di magico, in una notte senza luna. Tutti a vantare la bellezza delle notti stellate – quelle nelle quali alzi lo sguardo al cielo e pensi che mai potresti contare tutti quei luminosi puntini gialli – ma lui non capiva affatto: amava il buio, l’oscurità.

      Era quello che solitamente abbassava tutte le imposte e traeva beneficio dalla quiete di una casa silenziosa. E adesso, guardando fuori dalla finestra, capiva che quella che si apprestavano a trascorrere era proprio la sera perfetta. I capelli ramati erano fissati con il gel, e i gemelli – regalo di laurea di tanti, troppi anni prima – brillavano nell’artificiale energia dell’abat jour. Gli occhi verdi incastonati da lunghe ciglia quasi femminili brillavano d’eccitazione, ma sapeva che lei non era pronta. Quindici anni di matrimonio erano serviti a capire i suoi difetti – e i pregi, malgrado talvolta non fosse semplice ricordarli – e non c’era dubbio: mai e poi mai le 8 avrebbero significato le 8. Eternamente ritardataria, perpetuamente tanto bella quanto dannata. Ma forse se ne rendeva conto davvero solo adesso. Il suo sguardo vagò per il salotto; dalla sua postazione – una poltrona morbida di pelle verde – poteva vedere la parte della casa che più amava, il salotto. I gufi disseminati ovunque – lui amava quel maestoso quanto regale animale – con i loro occhi enormi, e spiritati, e un po’ inquietanti.

      «Eddie, dovresti almeno girarli. Guarda! Mi osservano e io non riesco a mangiare.»

      «Ma tesoro, guarda che belli, hanno quei colori cangianti e quell’aria nobile, maestosa.»

      «Non mi importa. Non riesco a concentrarmi sulla televisione. Gira quei mostri, subito.»

      Le foto, tra le quali quelle del matrimonio rimaste sempre in prima fila, nonostante i problemi, nonostante i dubbi e nonostante le cose scoperte ma sepolte in un recondito angolo della mente.

      «Cavolo, Sandy, stai ferma. Porca vacca, non provare…»

      «Cioè, non ci posso credere! Stai dicendo quelle cose qui, davanti al fotografo, il giorno del nostro matrimonio?»

      «Sandi, non farla tragica. Sei sempre la solita melodrammatica! Le sto dicendo nel tuo orecchio…»

      «Ragazziiii, sorridete! Cheeseee!»

      Le coppe, quelle che prima di rompersi il ginocchio collezionava giocando a pallavolo.

      «Sei sempre fuori! A giocare! E a me? Che dici a tua moglie?»

      «A te do tutto il mio amore… dopo le partite!»

      La cuccia del cane. Quel piccolo, peloso, bastardello che aveva rubato il loro cuore e il loro divano. Per dieci anni era stato testimone di tutto… litigi e riappacificazioni; amori e odi; urla e gemiti. Ma ora anche lui era andato via. Era nel vento, nella terra, in tutto quello che aveva annusato o marcato con la propria urina. Era nel cielo, nel mare. Era nelle nuvole. Ma non era lì con loro, e questo era un dato di fatto. Non avrebbe più rubato loro la copertina, né il cuore. Non avrebbe provocato le loro risate quando, tondo e cicciottello, cadeva ruzzolando nella neve a gennaio o quando, in piena estate, scappava dietro il gatto dei vicini obbligandolo a fuggire lontano e con una media da record di velocità.

      «Ted, piantala di rincorrere Jimbo! Eddie, vai a prendere Ted o al gatto dei vicini verrà un colpo apoplettico!»

      «Cara, piantala! È così divertente! Mio Dio, guarda come corre!»

      «Ed! prendilo!»

      Amava i ricordi. Arrivavano implacabili, forti. Talvolta aveva la recondita convinzione che qualcosa in lui non andasse: era capace di estraniarsi dal mondo per ricordare. Stava con lo sguardo perso nel vuoto, triste, come se qualcosa si fosse fermato nella sua testa. Qualche ingranaggio si arrestava e lui precipitava in passati più o meno lontani. Il flusso del tempo non era normale, in quegli attimi. Era come avere una navicella temporale, solo che non era certo lui a impostarne i parametri. Andava avanti e poi tornava indietro per poi tornare avanti. Le voci erano nitide, le sensazioni vive; persino gli odori tornavano come avessero appena solleticato il suo naso.

      Poi gli occhi cambiarono bruscamente direzione e la vide. Quella copertina. Rosa e azzurra. Sempre linda come il giorno che era stata, con cura e minuziosa dedizione, confezionata. I sogni, le illusioni. Riguardo questo fatto non riusciva molto spesso a evocare ricordi, discussioni. Sapeva che il solo pensare a questo avrebbe provocato pianti inconsolabili, melodrammatiche tragedie. E lui non aveva più lacrime. Il tempo un po’ lenisce; leviga le rocce che si piantano nel cuore impedendogli di pompare sangue a dovere e libera i polmoni da quel peso che non permette respiri profondi. O forse quell’organo chiamato cuore lui non lo aveva più.

      Voltò lo sguardo, posandolo sul tavolo. Se si punta lo sguardo su qualcosa di scuro e indifferente, come un comunissimo tavolo da cucina, le tristezze vengono rigurgitate dai propri occhi; vengono ricacciate dentro l’anima, o almeno così credeva lui. Un’altra cosa che aveva imparato, sempre con il tempo e la pazienza, era che se si hanno delle convinzioni si devono tenere strette. E non importa se si è nel torto, o se sono cose sciocche, surreali, inverosimili: aiutano.

      Il rumore sordo dei tacchi sulla scala di legno attirò la sua attenzione. Sandra era a metà e, con fare sexy, poggiando un braccio alla ringhiera in ferro battuto, si girò e gli sorrise mentre a lui si mozzava il fiato.

      Lei era bellissima, raggiante. I capelli fatti da fili d’oro erano sistemati in uno chignon elegante dietro la testa, e il vestito – mio Dio, quel vestito, spettacolare quanto costoso, attillato quanto elegante – le fasciava il corpo lasciando intravedere quelle forme che l’avevano incantato anche quella sera di 16 anni prima quando, giovani e inesperti, avevano deciso che valeva la pena di uscire anche una seconda volta.

      «Bene, sono pronta.» disse lei, divertita.

      Sapeva che lui non si sarebbe arrabbiato, non oggi. D’altronde avevano deciso che sarebbe dovuta essere fantastica, quella sera insieme. Atteggiandosi a bomba sexy scese gli ultimi tre gradini con una sicurezza impareggiabile, se non fosse che nell’ultimo gradino una spettrale forza sovrumana – che lei chiamava amabilmente scoordinazione – le piegò il piede verso destra. Sarebbe certamente rovinata a terra – lei e quell’amabile vestito – quando lui, svelto e agile come una gazzella nella Savana, le cinse i fianchi sussurrandole, serafico: «Non cambierai mai… vuoi un deambulatore, amore?»

      «Oh, mi basta la tua presenza per sentirmi vecchia.» lo rintuzzò lei che in quanto ad acidità pareva essere un’esperta.

      «Bene, il ristorante ci aspetta…» concluse lui, accompagnando le parole con una sonora pacca sul sedere della moglie che, presa alla sprovvista, spalancò gli occhi, stupita. D’altro canto non era sempre che loro due solevano scherzare. O meglio, solo negli ultimi giorni accadeva e non sovente. Ma non avrebbe certo avuto tempo di abituarsi.

      Le prese la mano e si avventurarono nel gelo della notte, in quella città che albergava anche nel loro cuore. C’è magia nella notte illuminata di una città, e loro, ipnotizzati dai colori, non si sarebbero mai stancati di passeggiarvi. Mille strade, di quelle che avevano percorso centinaia di migliaia di volte. Gli edifici – quelli grandi, infiniti, imponenti – e le piccole case – graziose con portici stipati di fiori e di rampicanti. L’odore di vita – quell’odore di smog misto a cibo – che si sente in quelle strade trafficate, vissute, amate. I negozi, illuminati a giorno e pieni di gente sorridente o musona, chiacchierona o riservata, bella o brutta. Miliardi di vite che ogni giorno si incontrano e si scontrano, si amano e si odiano. Ma loro amavano quel posto da cui tutti i loro amici volevano scappare. «Troppo frenetico.», sostenevano. O: «Vivere qui toglie dieci anni di vita… qualche anno e mi trasferisco nei Caraibi. Prendo una vacanza e torno arzillo come un ragazzino ventenne.»

      Per