contento che la pensi così. E sono contento che tu sia venuto oggi: perché sabato, per via di questo contratto, non avrei potuto mantenere la mia promessa. Non credo proprio che vogliano sapere i miei numeri per pubblicarli."
Era chiaramente dispiaciuto di non poter più aiutare i suoi amici con la sua fortuna, ma capivo che aveva fatto la cosa migliore. Provavo per lui, in quel momento, solo grande simpatia e stima, e per trovare le parole più adatte e carine per dirglielo stavo rovistando mentalmente tra le mie tante elucubrazioni di quella notte.
"Cosa mi stavi dicendo prima che il mio amico ti interrompesse bruscamente?", continuò Michele.
"Che tuo padre sarebbe fiero di te, e che anche tu dovresti esserlo di lui. Ti è ancora vicino, e lo è sempre stato, per quanti errori possa aver commesso."
A queste parole rimase molto pensieroso. "Hai ragione, forse avrei dovuto apprezzarlo di più quando era in vita." Aveva gli occhi lucidi, e non riuscii a trattenermi dall'abbracciarlo. Anche perché avevo la strana sensazione che avrei potuto non rivederlo più.
Stavo per andarmene, quando mi venne in mente il motivo originario per cui ero venuto a cercarlo.
"C'è una cosa che volevo chiederti: tuo padre in sogno ti ha mai detto qualche altra cosa oltre ai tre numeri? Magari un quarto numero?"
"Tengo carta e penna sul comodino, e appena mi dice il terzo numero mi sforzo in tutti i modi di svegliarmi per appuntarmeli, altrimenti li dimentico. E ci riesco. Mi sveglio, scrivo i numeri e mi riaddormento. E' piuttosto faticoso ma funziona sempre. Però a pensarci bene … forse la prima volta c'era qualche altro numero, ma non potevo giocarlo al lotto: era troppo alto."
Quel giorno per la prima volta in vita mia entrai in una ricevitoria e, con l'aiuto di un vecchietto gentile e disponibile, giocai al lotto.
La notte seguente la passai quasi in bianco. A dire il vero cominciai con una serie di incubi, uno più angoscioso dell'altro, per cui restare sveglio si rivelò per me il danno meno grave. Per fortuna trovai giovamento nell'applicare la tecnica di Michele: svegliarmi al momento giusto. Non per scrivere la mia fortuna, ma per sfuggire all'ossessione ricorrente. Incontravo di volta in volta qualche personaggio, quasi sempre della mia vita di tutti i giorni: il fruttivendolo, il barista, il medico, un collega. Si conversava tranquillamente di tutt'altro, e all'improvviso eccolo lì, grande ed in evidenza: un cartello dei prezzi su una cassetta vuota, o un numero sulla lavagnetta dietro alla cassa. Lo stesso numero da una volta all'altra, o forse diminuiva: cento e passa. Lo notavo dapprima distrattamente, quasi stupito; poi lo fissavo sempre più preoccupato. E allora il mio interlocutore interveniva a sciogliermi il dubbio e a darmi l'angosciosa conferma: "Sai cos'è quello? E' quanto manca alla fine di tutto."
Questo tipo di sogno, anche se da me interrotto sempre più prontamente nel momento critico, si ripeté in continuazione anche nelle notti successive. Praticamente dormivo pochissimo, vi lascio immaginare con quali conseguenze per la mia salute e per il mio umore. Ma il sogno che più temevo, che con qualche variante non mancava di presentarsi ogni notte e che più mi debilitava anche nel fisico, era quello del mio medico. Mi trovavo nel suo studio per una visita, un doloretto di volta in volta in una parte diversa del corpo. Col suo solito modo di fare tranquillo e scrupoloso mi visitava, ma quando mi toccava la parte interessata il dolore si acutizzava. Un dolore vivo, vero, penetrante. Aveva una espressione preoccupata: e mentre mi rivestivo e lui tornava alla scrivania, leggevo sul suo volto la gravità della diagnosi. Allora mi svegliavo, ricordandomi il seguito già visto del sogno: lui che mi scrive una ricetta e me la porge. "Questo è quanto ti manca alla fine di tutto", mi avrebbe detto, e sulla ricetta, scritto grande, il solito numero. Ma il peggio di questo sogno era che, al risveglio, il doloretto era ancora lì, lieve lieve ma in aggiunta a tutti quelli dei sogni dei precedenti.
Il giorno dopo aver giocato al lotto scoprii, guarda caso, di avere vinto.
Incassai la vincita con l'intenzione di comprarci un bel regalino per la mia ragazza. Qualcosa in gioielleria, una sorpresa: sono cose che alle donne piacciono sempre, pensavo. Ma l'effetto non fu esattamente quello sperato. Il regalo fu molto gradito, in verità; furono il mio atteggiamento e le mie parole a rovinare tutto. Me ne rendevo conto in tempo reale, ma non riuscivo ad evitarlo. Al di là degli incubi notturni, c'era qualcosa dentro di me che mi stava corrodendo, che stava guastando la mia naturale ed abituale spensieratezza, e lentamente ma inesorabilmente incancreniva il mio bell'umore per portarlo verso un pessimismo cupo e pesante, oggettivamente insopportabile.
Il dubbio che la fine di tutto riguardasse me e me solo, il mio fisico, la mia salute, a poco a poco era diventata una convinzione sempre più certa. Consegnando il pacchettino alla mia ragazza accennai alla possibilità che il nostro rapporto potesse non durare a lungo. Lei si rattristò, interpretando le mie parole come se volessi lasciarla.
"Ma no, voglio dire che potrebbe succedermi qualcosa."
"E cosa mai dovrebbe succederti?"
"Mah, non so. E' da qualche giorno che mi sento strano. Ho dei doloretti qua e là. Voglio farmi vedere dal dottore e farmi fare un check-up completo. Mi sento debole. Mi sento qualcosa che non va."
Insomma, non capirò mai come funzionano queste faccende. Sarà per la straordinaria sensibilità femminile, o per il loro vitale e insopprimibile bisogno di sicurezza; fatto sta che, proprio quando la mia debolezza mi faceva più desiderare che lei mi stesse vicina e nel momento in cui facevo il mio maggior sforzo per conquistarla, mi resi conto che il nostro rapporto cominciava irrimediabilmente ad incrinarsi, e che non avrei potuto più realmente contare sul suo affetto.
L'erosione inesorabile, soprattutto notturna, del mio fisico e delle mie forze proseguirono al punto che venerdì mi decisi a recarmi dal dottore. Mi fece uno strano effetto affrontare dal vero una situazione che avevo più volte sognato e temuto come un incubo; ma avevo ancora sufficiente razionalità per capire che in ogni caso non avrei potuto imputare alcunché al mio medico curante.
Mentre la sua mano tastava le parti del mio corpo a mio dire doloranti, constatai con un certo sollievo che il dolore non si acutizzava. Avrei dovuto farmi vedere da uno psicologo, pensavo, ragionando sull'inevitabile inesattezza della diagnosi e sull'inefficacia dei rimedi che di lì a poco mi sarebbero stati proposti. E invece il consiglio che ebbi fu pieno di buon senso: prendermi un bel periodo di ferie. Il mio stato, a suo parere, era dovuto essenzialmente a nervosismo da stress e alla stanchezza.
"Certamente", pensai tra me, "se mi mancano solo dieci giorni di vita a che mi serve accumulare ferie? Meglio consumarle tutte, finché posso."
Ebbi un attimo di terrore vedendolo con la penna in mano in procinto di scrivere su un foglio di carta intestata. Temevo il solito numero; e invece mi prescrisse ulteriori accertamenti, più che altro per scrupolo. E delle gocce per aiutarmi a dormire, se mai avessi voluto dormire.
La visita del medico ebbe comunque un effetto molto positivo: non ci furono più altri sogni ambientati nel suo studio. Poteva essere un indizio interessante da riferire allo psicologo nel caso, ormai sempre più probabile, avessi deciso di consultarne uno.
Chi invece quella notte non mancò di presentarsi puntuale in sogno furono Michele e suo padre. Avevo quasi dimenticato: l'indomani era giorno di estrazione. Appena vidi Michele mi ricordai con dispiacere di non aver preparato carta e penna sul comodino. Non fa niente, pensai, mi sarei concentrato al massimo sui numeri, per cercare di memorizzarli, e su Michele, per capire quale fosse il momento giusto per svegliarmi. Ma valeva la pena tutto questo sforzo? L'avrei fatto non certo per me, ma per mia madre: volevo lasciarle un bel gruzzoletto prima di venirle a mancare, in modo che potesse affrontare la vecchiaia con qualcosa in più della sua sola pensione.
Così assistetti alla solita scena: la grande carta da gioco col primo numero, la seconda, la terza. A quel punto mi voltai verso Michele che era già sparito, segno che era il momento giusto per destarmi anch'io e trascrivere i numeri; ma non riuscii ad evitare la tentazione di guardare la quarta carta che si stava alzando, novantasette. E quando appena dopo, sveglio, presi carta e penna, mi resi conto che i tre numeri fortunati li ricordavo appena, ma il quarto, quello disgraziato, non sarei mai riuscito a togliermelo dalla testa.
L'indomani