Mario Micolucci

Il Dono Del Reietto


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vigoroso Doko lo Sgozzaelfi che aveva osato chiamarlo “cornacchia decrepita” è morto di vecchiaia poco tempo dopo.»

      Se ne andarono ridendo di gusto per la malasorte di colui che un tempo avevano acclamato come loro campione. Doko, infatti, era stato l'unico goblin di quei tempi che aveva avuto l'onore di uccidere un elfo silvano. Gli altri venti goblin che erano con lui perirono tutti nell'impresa.

      Djeek aspettò per diversi minuti e, quando stabilì che, ormai, fossero distanti, impugnò il bastone e si concentrò per aprire una via d'uscita. Le cose non andarono esattamente come voleva: infatti, si fece crollare addosso il soffitto. Solo quando stava per soffocare, in un ultimo disperato tentativo, fu espulso violentemente dal terreno per piombare, insieme al lupacchiotto, direttamente nella palude.

      Per il goblin, lo schianto fu parecchio più doloroso del previsto e fu anche molto difficile rimettersi in marcia: la posizione rannicchiata, unita all'età che avanzava, lo avevano rattrappito.

      Sapeva che sarebbe morto di vecchiaia entro poche ore, ma non si arrese, voleva e doveva al più presto raggiungere i confini di Grande Palude per fuggire dal pericolo più imminente degli inseguitori e poi... al poi era meglio non pensarci.

      Doveva scegliere la direzione verso la quale fuggire. Sapeva che a Nord vi erano le montagne dei troll, un tempo, ma solo un tempo, dimora dei goblin: comunque, quella direzione non era percorribile senza passare troppo vicino al villaggio. Verso Sud, avrebbe trovato montagne, montagne e poi ancora montagne, fino al regno dei nani. Verso Ovest, invece, sarebbe arrivato al Pontificato, ma stando ai racconti, era meglio che vi stesse alla larga: non ci teneva a finire bruciato sul rogo. Era a Est che doveva fuggire, verso le terre di confine dell'Impero di Arsantis: lì, c'era il Regno di Faunna i cui villaggi erano la meta prediletta dei razziatori della sua tribù. Camminò seguito dal cucciolo, ma, man mano che procedeva, sentiva le forze mancargli e anche la sua andatura ne risentiva: infatti, mentre prima il lupo faceva fatica a tenergli il passo, dopo un'ora lo stesso doveva fermarsi ad aspettarlo. Aveva dolori dappertutto, sentiva l'umidità dell'acqua penetrargli nelle giunture con fitte acute. Stabilì che il destino della maggior parte dei goblin, cioè quello di avere una morte violenta, ma il più delle volte rapida e in età giovanile, fosse una vera benedizione.

      Continuò a spingersi avanti, non sapeva bene neanche lui verso cosa. Sentiva l'alito fetido della morte attanagliarlo o, forse, era il suo stesso respiro che puzzava di putrefazione. Aveva il fiato corto e i passi si facevano sempre più lenti e brevi. Dall'alto, il gracchiare degli straziatori sembrava deriderlo o festeggiare in attesa del banchetto che li attendeva. Esausto, si fermò e, con la vista annebbiata, focalizzò a fatica la sua immagine riflessa sull'acqua: vide un essere più simile a una statua di creta grezza che a un goblin. Aveva lunghi peli bianchi e radi che gli spuntavano a chiazze sparse casualmente un po' dappertutto e le dita sembravano ramoscelli secchi e putrescenti: quando aveva visto lo sciamano, gli era sembrato molto anziano, ma solo in quel frangente potette contemplare cosa significasse essere veramente vecchi. Fece per riprendere a muoversi, ma le ginocchia non lo assecondarono e, con un tonfo, cadde nella sua stessa immagine riflessa, mentre perdeva i sensi.

      

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      Sognò di essere il Verme Primordiale. Gli bastava un solo piccolo sforzo per muoversi di centinaia di passi: attraversava la dura roccia come un pesce farebbe con l'acqua. Sentiva tutto il mondo appartenergli. Era forte e inarrestabile, ma, a un tratto, udì la voce dello sciamano e si sentì rattrappire: ogni movimento diventava sempre più faticoso e doloroso. Si mosse nella terra come un serpente d'acqua nuota nella palude ed emerse sotto la volta celeste. Avvertì il battere d'ali dei corvi e i suoni di una furiosa battaglia aerea tra questi e un maestoso cigno bianco. Quest'ultimo, puntando dritto in picchiata, sbaragliò la difesa dello stormo nero per andare a infilarglisi diritto nella gola. Nell'ingurgitarlo, avvertì nelle interiora una fitta fortissima che portò Djeek a dissociarsi dall'Emissario e tornare a essere se stesso, anche se molto vecchio. Si ritrovò intrappolato nello stomaco del Grande Verme insieme al suo amico lupo. Sulle pareti molli e putrescenti, erano trattenute da una melma collosa le figure urlanti di elfi sfigurati i quali presero a insultarlo tra gorgoglii soffocati.

      All'improvviso, irruppe nello stomaco anche il cigno. Esso si avventò contro di lui: i due si cinsero in un abbraccio mortale. Caddero a terra ruzzolando tra piume bianche e schizzi di sangue nero. Alla fine Djeek riuscì a mordere il collo del suo avversario uccidendolo, ma sentì il suo sangue colargli nella gola come acido. Rimase a terra in preda convulsioni dolorose, mentre il lupacchiotto cercava di leccargli via il sangue del cigno dalla faccia, perché la stava corrodendo...

      Si svegliò di soprassalto su di un giaciglio di legno marcio. Il suo piccolo amico gli leccava la faccia. Il sogno era svanito, lasciando indietro qualcosa, però: il dolore che gli attanagliava gola, stomaco e ventre era ancora lì, più intenso che mai. Urlò e si rotolò tenendosi il ventre; nel dimenarsi cadde giù dalla branda, nel frattempo il lupacchiotto guaiva girandogli intorno allarmato.

      «Cos'è questo baccano!» sbraitò una voce gracchiante. «È ancora presto per svegliarti. Bevi questo!»

      Djeek si sentì prendere per i peli della testa da una mano ossuta e, con lo sguardo appannato, vide una sagoma sinistra cacciargli in gola un qualche intruglio che lo fece sprofondare di nuovo nel sonno, questa volta senza sogni.

      Quando si risvegliò, vide che il cucciolo dormiva ai suoi piedi. Era molto cresciuto. Infatti, la sua stazza era più che triplicata: per quanto tempo aveva dormito? Si sentiva ancora distrutto, ma il dolore allo stomaco era meno straziante. Così, ebbe la lucidità di guardarsi attorno. Si trovava all'interno di una capanna. Strutturalmente non era così diversa da quelle dei goblin: era composta di rami, tavole di legno e fronde per coprire le fessure più evidenti. Al suo interno, era accatastata una miriade di ossa, ampolle, contenitori, calderoni, strane verdure appese insieme a organi e pezzi di animali irriconoscibili. L'aria era talmente pregna di odori che, nel miasma, non riusciva neanche a distinguere quello del lupo che gli dormiva vicino. Continuando a guardarsi intorno, scorse la cosa più strana tra quelle appese: c'era un neonato di umano. Era stato fissato a una parete e aveva una canula infilata in un braccio: da essa gocciolava, molto lentamente, del sangue che andava finire in un'ampolla. Inoltre, aveva un tubo ficcato in gola attraverso il quale gli veniva somministrato del liquido bianco, probabilmente del latte. Il piccolo era ancora vivo, poiché cercava di urlare incessantemente senza produrre alcun suono a eccezione di qualche gorgoglio: aveva una piccola incisione sul collo a testimonianza di un intervento alle corde vocali.

      «Ti sei svegliato!» sentì gracchiare dietro di sé e trasalì.

      «Il mio siero è, ormai, talmente perfezionato che riesce ad annullare completamente anche una delle più potenti maledizioni che un sacerdote di Corrupto possa proferire» disse passandogli una mano rinsecchita e scura sulla guancia.

      Solo in quel momento, Djeek si ricordò della sua vecchiaia e si accorse di essere ringiovanito. Stava per ringraziare la sua salvatrice, quando questa gli fece entrare le unghie nella faccia e con tono stizzito sibilò: «Ti invidio! Bravo! Sei stato una buona cavia. Ora, non mi servi più e quindi è meglio che ti uccida, infima creatura di Corrupto!» Quindi, ponendoglisi dinanzi con una piccola canna cava e aguzza, aggiunse: «Ma prima, ho bisogno di un po' del tuo sangue: sarà utile per le mie ricerche sull'antidoto.»

      Djeek era troppo debole per reagire e non poté fare altro che osservare inerme la strana creatura mentre, con noncuranza, gli infilava il rozzo ago in una vena del polso.

      Era davvero alta, ma la corporatura era magra e ricurva. La pelle rugosa era tesa tra le ossa sporgenti. Indossava uno cencio strappato e lordo di strati e strati di macchie di origine svariata. Le sue fattezze erano simili a quelle umane, ma dava anche l'impressione di essere una gallina spennata, tant'è vero che in alcuni punti, soprattutto sulle braccia, le spuntavano penne per lo più di colore nero; in effetti, aveva anche qualche rara piuma bianca.

      Sul collo lungo e incurvato, faceva capolino un piccolo volto rugoso nel quale risaltava un naso adunco e ossuto, simile a un becco. Gli occhi erano fissi e senza palpebre, come quelli di un uccello: