ragazzo lo guardò come se fosse un folle.
“Gli etasetti,” disse.
Thor si avvicinò al ragazzo e lo guardò. Gli era piaciuto da subito. Era intelligente, sincero, coraggioso e aveva un grande cuore.
“Conosci un posto dove possiamo trovare riparo per la notte?”
Il ragazzino lo guardò e scrollò le spalle, incerto. Ponderò la situazione.
“Penso che non dovrei,” disse. “Il nonno si arrabbierà un sacco.”
Improvvisamente Krohn apparve alle spalle di Thor e camminò verso il ragazzino, i cui occhi si accesero di gioia.
“Wow!” esclamò.
Krohn gli leccò la faccia e il ragazzino rise divertito accarezzandogli la testa. Poi si inginocchiò, abbassò la lancia e lo abbracciò. Krohn sembrò apprezzare e quasi ricambiare e il ragazzino rise istericamente.
“Come si chiama?” chiese. “Cos’è?”
“Si chiama Krohn,” disse Thor sorridendo. “È un raro leopardo bianco. Viene dall’altra parte dell’oceano. Dall’Anello. Da dove veniamo noi. Gli piaci.”
Il ragazzino baciò Krohn ripetutamente e alla fine si rialzò in piedi e guardò Thor.
“Bene,” disse incerto, “Credo di potervi portare alla mia casa. Speriamo che il nonno non si arrabbi troppo. Se lo farà, la vostra fortuna sarà finita. Seguitemi. Dobbiamo sbrigarci. Presto sarà notte.”
Il ragazzo si voltò e velocemente li guidò attraverso la giungla. Thor e gli altri lo seguirono. Thor era sorpreso dalla sua destrezza e da quanto bene conoscesse quella foresta. Era difficile stargli dietro.
“C’è gente che passa di qui di tanto in tanto,” disse il ragazzino. “L’oceano e le correnti li conducono dritti al porto. Alcuni vengono dal mare e tagliano per di qua, diretti in qualche altro luogo. La maggior parte di loro non ce la fanno. Vengono mangiati o gli capita qualcos’altro nella giungla. Voi siete stati fortunati. Ci sono cose ben peggiori dei belvagatori, qui.”
Thor deglutì.
“Peggio di quello? Cosa per esempio?”
Il ragazzino scosse la testa e continuò a camminare.
“Non credo vogliate saperlo. Ho visto cose piuttosto sgradevoli qui.”
“Da quanto sei qui?” gli chiese Thor curioso.
“Da sempre,” rispose. “Mio nonno ci ha fatto trasferire quando ero ancora piccolo.”
“Ma perché qui, in questo posto? Sicuramente ci sono luoghi mille volte più ospitali.”
“Non conoscete l’Impero, vero?” chiese loro il ragazzo. “Le truppe sono ovunque. Non è così facile rimanere inosservati. Se mai ci catturassero, ci farebbero schiavi. Vengono raramente da queste parti e comunque non si addentrano mai così tanto nella giungla.”
Mentre attraversavano una folta macchia di vegetazione, Thor allungò una mano per spostare una foglia dal cammino, ma il ragazzo si voltò e gli spinse via il braccio gridando: “NON TOCCARLA!”
Tutti si fermarono e Thor fissò la foglia che aveva quasi toccato. Era grande e gialla, e sembrava piuttosto innocua.
Il ragazzo allungò un bastone e la sfiorò appena con la punta. Improvvisamente la foglia si avvolse attorno al bastone, con incredibile velocità, e ne seguì un sibilo: il bastoncino evaporò.
Thor era scioccato.
“Una foglia bruciante,” disse. “Veleno. Se l’avessi toccata, saresti senza mano ora.”
Thor si guardò attorno esaminando tutti i tipi di foglie con nuova circospezione. Si meravigliò di quanto fortunati fossero stati a incontrare quel ragazzino.
Proseguirono lungo il loro tragitto e Thor mantenne le mani vicine al corpo, così come gli altri. Cercarono di prestare maggiore attenzione a ogni cosa che calpestavano.
“Rimanete vicini e camminate esattamente dove metto i piedi io,” disse il ragazzo. “Non toccate nulla. Non cercate di mangiare quella frutta. E non annusate neanche i fiori, a meno che non vogliate andare all’altro mondo.”
“Ehi, e quello cos’è?” chiese O’Connor voltandosi e guardando un enorme frutto che pendeva da un ramo, lungo e stretto, di un bel giallo brillante. O’Connor vi si avvicinò, allungando una mano.
“NO!” strillò il ragazzino.
Ma era troppo tardi. Non appena O’Connor l’ebbe toccato il terreno si aprì sotto di loro e Thor si sentì scivolare, come correndo giù da una collina ricoperta di fango e acqua. Erano intrappolati in una colata di fango e non riuscivano a fermarsi.
Continuarono a gridare mentre scivolavano per decine di metri, giù verso i bui e profondi recessi della giungla.
CAPITOLO SETTE
Erec era in groppa al cavallo, respirava affannosamente e si preparava ad attaccare i duecento soldati che gli stavano di fronte. Aveva combattuto valorosamente ed era riuscito ed abbattere i primi cento, ma ora le sue spalle erano più deboli e gli tremavano le mani. La sua mente era pronta a combattere per sempre, ma non aveva idea di quanto a lungo il suo corpo avrebbe retto. Eppure era deciso a continuare a battersi con tutte le sue forze, come aveva fatto per tutta la vita, e lasciare che fosse il fato a decidere per lui.
Erec gridò e spronò quel cavallo sconosciuto che aveva rubato a uno dei suoi avversari, lanciandosi contro i soldati.
Quelli a loro volta galoppavano verso di lui e risposero al suo grido solitario con i loro, feroci. Molto sangue era già stato versato su quel campo di battaglia, ma era evidente che nessuno se ne sarebbe andato senza aver prima ucciso l’altra parte.
Mentre avanzava Erec estrasse un coltello da lancio dalla cintura, prese la mira e lo tirò al soldato che stava a capo dell’esercito davanti a lui. Fu un lancio perfetto che gli perforò la gola. L’uomo si portò le mani al collo, lasciò andare le redini e cadde da cavallo. Come Erec aveva sperato, il soldato cadde davanti agli zoccoli degli altri cavalli obbligandone molti a passare sul suo corpo, cadendo a terra a loro volta.
Poi Erec sollevò con una mano un giavellotto, tenendo lo scudo nell’altra, abbassò il para volto e si lanciò alla carica con tutta la sua forza. Aveva intenzione di attaccare quell’esercito quanto più velocemente e violentemente fosse stato capace, sferrare quanti più colpi possibili e tagliarlo a metà.
Lanciò un grido mentre si lanciava nel gruppo. Tutti i suoi anni di tornei gli erano stati utili, e usò il giavellotto lungo con destrezza abbattendo un soldato dopo l’altro, mandandoli a terra in rapida successione. Si accucciò sul cavallo e con l’altra mano si coprì con lo scudo. Sentì una raffica di colpi cadergli addosso – sullo scudo e sull’armatura – da ogni direzione. Fu colpito da spade, asce e mazze, una tempesta di metallo, e pregò che l’armatura reggesse. Stava aggrappato al suo giavellotto, eliminando quanti più soldati poteva nella sua avanzata, creando un passaggio proprio nel mezzo dell’enorme gruppo.
Non rallentò e, dopo circa un minuto, alla fine sgusciò dall’altra parte, all’aperto, avendo creato un canale di devastazione in mezzo all’esercito di soldati. Aveva atterrato almeno una decina di guerrieri, ma aveva anche sofferto parecchio. Respirava affannosamente, il corpo gli doleva, il clangore metallico ancora gli risuonava nelle orecchie. Gli sembrava di essere stato messo in una macina. Si guardò e vide che era ricoperto di sangue: fortunatamente non sentiva di avere ferite gravi. Sembravano per lo più graffi e tagli superficiali.
Fece un ampio cerchio, una sorta di inversione di marcia, preparandosi a riaffrontare l’esercito. Anche loro si erano girati e si preparavano nuovamente all’attacco. Erec era fiero delle sue vittorie fino a quel momento, ma stava diventando più difficile riprendere fiato e sapeva che un altro passaggio attraverso quel gruppo avrebbe potuto finirlo. Eppure si ripropose di lanciarsi nuovamente all’attacco, determinato a non fuggire mai da una battaglia.
Da dietro l’esercito si levò improvvisamente