affiancato da O’Connor.
“Vuoi stare al timone?” gli chiese Thor.
O’Connor sorrise.
“Magari.”
Iniziarono ad acquistare reale velocità, fendendo le acque gialle del Tartuvio con il vento alle spalle. Finalmente si stavano muovendo, e Thor tirò un sospiro di sollievo. Erano partiti.
Thor si diresse a prua e Reece lo seguì, mentre Krohn si infilava tra loro e si appoggiava alla gamba di Thor, che si abbassò ad accarezzargli la morbida pelliccia bianca. Krohn gli leccò la mano e Thor prese da un sacco un pezzo di carne e glielo diede.
Guardò poi il vasto mare davanti a loro. L’orizzonte lontano era disseminato di nere navi dell’Impero, sicuramente dirette alla parte dell’Anello appartenente ai McCloud. Fortunatamente erano distratti e non era per niente probabile che si aspettassero di avvistare una barca solitaria diretta verso il loro territorio. Il cielo era limpido, c’era un forte vento alle loro spalle e continuarono a guadagnare velocità.
Thor si chiedeva cosa ci fosse in serbo per loro là fuori. Si chiedeva quanto ci sarebbe voluto per raggiungere il territorio dell’Impero, e cosa avrebbero trovato lì ad accoglierli. Si chiedeva come avrebbero trovato la spada e come sarebbe andata a finire. Sapeva che le probabilità erano loro sfavorevoli, eppure era entusiasta di essere finalmente in viaggio, emozionato di essere arrivato a quel punto e bramoso di recuperare la spada.
“E se non fosse lì?” chiese Reece.
Thor si voltò a guardarlo.
“La spada,” aggiunse l’amico. “Cosa facciamo se non è lì? O se è stata perduta? O distrutta? O se non la troviamo e basta? Del resto l’Impero è grande.”
“E se l’Impero ha scoperto come farne uso?” chiese Elden con voce profonda, raggiungendoli.
“E se la troviamo e non riusciamo a riportarla indietro?” chiese Conven.
Rimasero lì, oppressi da ciò che stava loro innanzi, da quel mare di domande senza risposta. Quel viaggio era una follia. Thor lo sapeva.
Una follia.
CAPITOLO QUATTRO
Gareth camminava avanti e indietro nello studio di suo padre – una piccola stanza al piano più alto del castello, una saletta che suo padre aveva amato – e poco alla volta la distruggeva.
Andava da una libreria all’altra, prendeva preziosi volumi, antichi libri rilegati in pelle che appartenevano alla sua famiglia da secoli, e ne strappava copertine e pagine facendole in mille pezzi. Li lanciava in aria e questi ricadevano sulla sua testa come fiocchi di neve, appiccicandosi al suo corpo e alla saliva che gli colava dalla bocca. Era determinato a eliminare ogni singola parte di quel luogo che suo padre aveva amato, un libro dopo l’altro.
Si avvicinò freneticamente a un tavolino d’angolo, afferrò ciò che era rimasto della sua pipa di oppio e con mano tremante se la portò alla bocca aspirando con violenza, più bisognoso che mai. Ne era ormai dipendente e fumava in ogni momento, con l’intento di bloccare le immagini di suo padre che lo perseguitavano nei suoi sogni e addirittura quando era sveglio.
Quando ripose la pipa vide suo padre nella stanza, di fronte a lui, un cadavere in via di decomposizione. Ogni volta che gli appariva il cadavere era sempre più decomposto, sempre più scheletro che carne. Gareth si voltò per non dover sopportare quella vista abominevole.
Era solito tentare di attaccare l’immagine, ma aveva imparato che non serviva a nulla. Quindi si limitò a girare la testa e a distogliere lo sguardo. Era sempre lo stesso: suo padre che indossava una corona arrugginita, la bocca aperta, gli occhi fissi su di lui con espressione di rimprovero, un dito puntato contro di lui, accusatorio. In quell’orribile sguardo Gareth sentiva che i suoi giorni erano contati, sentiva che era solo questione di tempo perché finisse a raggiungere suo padre. Odiava più di ogni altra cosa vederlo. Se c’era stato un aspetto positivo nell’ucciderlo, era proprio che non aveva più dovuto vedere la sua faccia ogni giorno. Ma ora, ironicamente, lo vedeva più che mai.
Gareth si voltò e scagliò la pipa di oppio contro la visione, sperando che – tirandola velocemente – magari l’avrebbe realmente colpito.
Ma la pipa volò semplicemente in aria e andò a sbattere contro il muro frantumandosi. E suo padre era sempre lì che lo guardava con sguardo truce.
“Quelle droghe non ti saranno di aiuto ora,” lo rimproverò.
Gareth non poteva più sopportarlo. Si lanciò contro l’apparizione, con le mani in avanti, deciso a graffiargli la faccia. Ma come sempre si scagliò contro nient’altro che aria, e questa volta inciampò in mezzo alla stanza atterrando sulla scrivania di legno di suo padre, rovesciandola e cadendo a terra con essa.
Rotolò sul pavimento, ruotò su se stesso e sollevò lo sguardo accorgendosi di essersi procurato un taglio profondo al braccio. Il sangue gli gocciolava dalla camicia, e guardandosi si rese conto di avere ancora indosso la stessa veste da camera che portava ormai da giorni. In effetti erano settimane che non si cambiava. Vide di scorcio un riflesso di se stesso e vide i capelli arruffati: sembrava un comune mascalzone. Una parte di lui stentava a credere di essere caduto così in basso. Ma un'altra parte non se ne curava affatto. L’unica cosa che gli era rimasta dentro era l’ardente desiderio di distruggere, distruggere ogni rimasuglio di ciò che un tempo era stato di suo padre. Avrebbe voluto far radere al suolo quel castello, e la Corte del Re con esso. Sarebbe stata la vendetta per il trattamento subito da bambino. I ricordi erano indelebili in lui, come una spina che non era capace di estirpare.
La porta dello studio si aprì di scatto e un servitore di Gareth entrò guardandolo con paura.
“Mio signore,” disse. “Ho udito un colpo. State bene? Mio signore, state sanguinando!”
Gareth guardò il ragazzo con odio. Cercò di rimettersi in piedi e colpirlo, ma scivolò su qualcosa e cadde a terra, disorientato dall’ultima fumata di oppio.
“Mio signore, lasci che la aiuti!”
Il ragazzo si affrettò ad afferrare il braccio di Gareth, che era magrissimo, praticamente pelle e ossa.
Ma Gareth aveva ancora un rimasuglio di forza e quando il ragazzo gli toccò il braccio lo scrollò via, spingendolo dall’altra parte della stanza.
“Toccami un’altra volta e ti farò tagliare le mani,” lo minacciò.
Il ragazzo indietreggiò intimorito e in quel momento un altro servitore entrò nella stanza, accompagnato da un uomo più anziano che Gareth riconobbe appena. Da qualche parte nei meandri della sua mente sapeva di conoscerlo, ma in quel momento non era in grado di ricordare.
“Mio signore,” disse una voce vecchia e greve, “vi attendiamo nel consiglio da mezza giornata. I membri del consiglio non possono aspettare molto oltre. Hanno notizie urgenti che devono condividere con voi prima che il giorno volga al termine. Siete pronto?”
Gareth strinse gli occhi in due fessure guardando l’uomo e cercando di capire. Ricordava appena che aveva servito suo padre. La Sala del Consiglio… la riunione… Tutto vorticava nella sua mente.
“Chi sei?” chiese.
“Mio signore, sono Aberthol. Il consigliere più fidato di vostro padre,” gli rispose, avvicinandosi di un passo.
Lentamente gli stava tornando alla mente. Aberthol. Il consiglio. I pensieri di Gareth vorticavano, la testa gli faceva male. Voleva solo che lo lasciassero solo.
“Lasciatemi stare,” disse seccamente. “Ora arrivo.”
Aberthol annuì e uscì rapidamente dalla stanza insieme al servitore, chiudendo la porta alle loro spalle.
Gareth rimase lì in ginocchio, la testa tra le mani, cercando di pensare e ricordare. Era troppo. Le cose gli tornavano alla mente a piccoli pezzi. Lo scudo era inattivo; l’Impero stava attaccando; metà della sua corte se n’era andata; sua sorella li aveva condotti via; a Silesia… Gwendolyn… Ecco. Ecco cosa aveva cercato di ricordare.
Gwendolyn. La odiava con una veemenza