È una tradizione nell’Argento. Non puoi mancare. Più tardi stanotte incontriamoci sul retro della Sala delle Armi. Allora potremo stare insieme.”
Thor si chinò verso di lei e la baciò un’ultima volta, tenendola stretta quanto a lungo poté, fino a che gli altri soldati lo tirarono via con loro.
“Ti amo,” gli disse Gwen
“Anch’io ti amo,” le rispose, più sinceramente di quanto lei potesse immaginare.
Tutto ciò a cui riuscì a pensare mentre lo trascinavano via, mentre guardava quegli occhi meravigliosi così pieni di amore per lui, era che voleva più di ogni altra cosa chiederle di sposarlo e farla così sua per sempre. Si disse che quello non era il momento giusto.
Forse più tardi quella stessa notte.
CAPITOLO DODICI
Gareth si trovava nella sua stanza e guardava dalla finestra alle prime luci dell’alba che sorgeva sulla Corte del Re. Osservava la folla che si stava radunando sotto di lui e provava un senso di nausea salirgli dallo stomaco. All’orizzonte si trovava la sua paura più grande, la vera immagine di ciò che maggiormente temeva: l’esercito del Re che stava tornando, vittorioso e trionfante dopo lo scontro con i McCloud. Kendrick e Thor erano in testa liberi e vivi, degli eroi. Le sue spie lo avevano già informato di tutto ciò che era successo, che Thor era sopravvissuto all’imboscata e che era vivo e stava bene. Ora quegli uomini erano tutti più forti e tornavano alla Corte del Re in qualità di solida forza armata. Tutti i suoi piani erano terribilmente falliti e gli avevano lasciato un buco nello stomaco. Sentiva che il regno gli si stava stringendo addosso.
Gareth udì uno scricchiolio nella camera e si voltò di scatto chiudendo gli occhi per la paura non appena vide cosa aveva di fronte.
“Apri gli occhi, figlio!” tuonò una voce.
Tremando Gareth aprì gli occhi e fu scioccato di vedere suo padre lì in piedi davanti a lui: un cadavere in via di decomposizione, la corona arrugginita in testa e uno scettro altrettanto arrugginito in mano. Lo guardava con aria di rimprovero, come aveva sempre fatto in vita.
“Il sangue verrà lavato con il sangue,” sentenziò suo padre.
“Ti odio!” gridò Gareth. “TI ODIO!” ripeté, e trasse il pugnale dalla sua cintura avventandosi contro di lui.
Quando lo raggiunse conficcò il pugnale, non colpendo però altro che aria, e incespicò in avanti.
Si voltò dall’altra parte, ma la visione era scomparsa. Era solo nella camera. Era sempre stato solo. Stava perdendo la testa?
Corse dall’altra parte della stanza, rovistò nel suo armadio dei vestiti e prese la pipa di oppio con mani tremanti. La accese rapidamente e aspirò profondamente diverse volte. Sentì le droghe entrargli velocemente in circolo, si sentì momentaneamente perso nello sballo che quelle sostanze gli donavano. Negli ultimi giorni si era sempre più lasciato andare all’oppio, che sembrava essere l’unica cosa in grado di aiutarlo a cacciare l’immagine di suo padre. Gareth era tormentato da quel luogo e iniziava a chiedersi se il fantasma di suo padre fosse imprigionato tra quelle pareti e se fosse opportuno spostare la corte da qualche altra parte. In ogni caso avrebbe voluto radere al suolo quell’edificio: quel posto conteneva tutti i ricordi della sua infanzia che lui odiava.
Gareth si voltò nuovamente verso la finestra: era madido di sudore gelato e si asciugò la fronte con il dorso della mano. Rimase a guardare. L’esercito si stava avvicinando e Thor era ben visibile addirittura da lì, mentre la stupida gente gli si ammassava attorno trattandolo da eroe. Gareth era livido di rabbia e bruciava di invidia. Tutti i piani che aveva escogitato erano falliti: Kendrick era stato liberato, Thor era vivo, persino Godfrey era stato capace di sfuggire in qualche modo al veleno, anche se quella quantità avrebbe potuto ammazzare un cavallo.
Però allo stesso tempo altri piani erano andati a buon fine: Firth almeno era morto, e non erano rimasti testimoni che provassero che lui aveva ucciso suo padre. Gareth fece un profondo respiro, sollevato, constatando che le cose non erano poi così male come sembravano. Dopotutto la scorta di Nevareni era per strada per venire a prendere Gwendolyn e portarla via con loro in qualche orribile angolo dell’Anello come sposa. Sorrise al pensiero, iniziando a sentirsi meglio. Sì, almeno lei a breve gli si sarebbe levata dai piedi.
Gareth aveva tempo. Avrebbe trovato altri modi per sistemare Kendrick, Thor e Godfrey: aveva un sacco di possibili piani per farli fuori. E aveva a disposizione tutto il tempo e tutto il potere del mondo per metterli in pratica. Sì, avevano vinto questo round, ma non si sarebbero aggiudicati anche il prossimo.
Gareth udì un altro rumore, si voltò ma non vide nulla. Doveva uscire di lì, non poteva più restare in quella stanza.
Si girò e uscì in fretta e furia dalla camera. La porta si spalancò prima che lui vi giungesse davanti, aperta dai suoi servitori, sempre attenti ad anticipare ogni sua mossa.
Gareth si gettò addosso il mantello e la corona di suo padre, afferrò lo scettro e scese velocemente nell’atrio. Percorse i corridoi fino a che raggiunse la sua sala da pranzo privata, una ricca stanza in pietra con alti soffitti ad arco e vetrate colorate illuminate dalla luce della prima mattina. Due servitori stavano davanti alla porta aperta, un altro dietro il capo della tavola. Era un lungo tavolo da banchetto di circa quindici metri, con decine di sedie allineate lungo i lati. Il servitore porse la sedia a Gareth mentre lui si avvicinava. Era un’antica sedia di quercia sulla quale suo padre aveva seduto innumerevoli volte.
Gareth si sedette e si rese conto di quanto odiasse anche quella stanza. Ricordò di essere stato costretto a sedersi là dentro da bambino, tutta la famiglia riunita attorno al tavolo, a ricevere ramanzine o rimproveri da suo padre e da sua madre. Ora la stanza era desolatamente vuota. Non c’era nessuno là dentro a parte lui: non i suoi fratelli e genitori, né i suoi amici. Neanche i suoi consiglieri. Nei giorni passati era riuscito a isolare tutti, e ora mangiava da solo. Preferiva comunque così: per troppe volte aveva visto il fantasma di suo padre là dentro con lui, e si era imbarazzato quando aveva urlato di fronte agli altri.
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