che la vittoria fosse completa e che l’Anello fosse suo. Aveva distrutto la Corte del Re e aveva conquistato Silesia; aveva sottomesso tutti i MacGil e umiliato la loro regina, Gwendolyn; aveva torturato i loro più grandi soldati issandoli sulle croci; aveva già assassinato Kolk e stava per fare lo stesso con Kendrick e gli altri. Argon si era immischiato nei suoi affari e aveva portato via Gwendolyn prima che potesse ucciderla, ma lui era stato sul punto di sistemare tutto, riprendendosela per poterla poi uccidere insieme agli altri. Mancava solo un giorno per poter portare tutto a compimento e avere la vittoria totalmente in pugno.
E poi tutto era cambiato per il peggio in modo estremamente veloce. Thor e quel drago erano apparsi all’orizzonte come un segno nefasto, erano scesi su di loro come una nuvola e fra enormi fiammate e la Spada della Dinastia erano riusciti a spazzare via intere divisioni di uomini. Andronico aveva visto tutto a distanza di sicurezza: aveva avuto il buon senso di battaglia di ritirarsi lì, da quella parte dell’Altopiano, mentre i suoi messaggeri continuavano durante il giorno a riportargli notizie dei danni che Thor e il drago stavano facendo. A sud, vicino a Savaria, un intero battaglione era stato spazzato via; nella Corte del Re e a Silesia era andata ancora peggio. Ora l’intero Regno Occidentale dell’Anello, un attimo prima sotto il suo controllo, era stato liberato. Era una cosa inconcepibile.
Andronico ribolliva mentre pensava alla Spada della Dinastia. Si era spinto tanto avanti da riuscire a portarla via dall’Anello e ora quella era tornata al suo posto, e con essa lo Scudo era stato riattivato. Ciò significava che era intrappolato lì con gli uomini del suo seguito. Ovviamente potevano andarsene, ma non avrebbe potuto chiamare altri rinforzi. Stimava di avere ancora circa mezzo milione di soldati lì, da quella parte dell’Altopiano, più che a sufficienza per sovrastare i MacGil. Ma contro Thor, la Spada della Dinastia e quel drago i numeri non contavano nulla. Ora le probabilità di vittoria, ironicamente, erano contro di lui. Si trovava in una posizione mai provata prima.
Come se le cose non potessero andare peggio di così, le sue spie gli avevano anche fatto sapere delle sommosse a casa, nel Congresso dell’Impero, di Romolo che tramava di portargli via il trono.
Andronico ardeva di rabbia mentre attraversava a lunghi passi l’accampamento, riflettendo sulla sua posizione e cercando qualcuno, una qualsiasi persona da biasimare. Da comandante sapeva che la cosa più saggia da fare, tatticamente, sarebbe stata di ritirarsi e lasciare l’Anello in quel preciso istante, prima che Thor e il suo drago li trovassero; salvare le forze armate che gli erano rimaste, imbarcarsi sulle navi e tornare nell’Impero in disgrazia per riprendersi il trono. Dopotutto l’Anello non era che un puntolino nella grande vastità dell’Impero e a ogni grande comandante era concessa almeno una sconfitta. Avrebbe ancora governato il novantanove per cento del mondo e sapeva che avrebbe dovuto essere più che soddisfatto e accontentarsi.
Ma il grande Andronico non era fatto di questa pasta. Andronico non era un tipo prudente o che si accontentava. Aveva sempre seguito le sue passioni e sebbene sapesse che era rischioso, non era pronto ad andarsene da quel luogo, ad ammettere la sconfitta, a permettere all’Anello di scivolargli via dalle mani. Anche se avesse dovuto sacrificare tutto l’Impero, avrebbe trovato un modo per annientare e dominare quel posto. Non importava cosa gli sarebbe costato.
Andronico non poteva controllare il drago o la Spada della Dinastia. Ma Thorgrin… quella era un’altra questione. Suo figlio.
Andronico si fermò e sospirò al pensiero. Che ironia: il suo stesso figlio, l’ultimo ostacolo rimasto al suo dominio sul mondo. In qualche modo sembrava sensato. Inevitabile. Andava sempre così: che le persone a te più vicine fossero quelle che ti ferivano di più.
Ripensò alla profezia. Era stato un errore, ovviamente, lasciarlo vivere. Il più grosso errore della sua vita. Ma aveva un debole per lui, anche se sapeva che la profezia dichiarava che proprio Thor lo avrebbe portato alla sua rovina. Lo aveva lasciato vivere e ora era giunto il momento di pagarne il prezzo.
Andronico continuò a camminare attraverso l’accampamento, seguito dai generali, fino a raggiungerne la periferia e raggiungere una tenda più piccola delle altre, l’unica di colore scarlatto in un mare di tende nere e dorate. C’era solo una persona che poteva avere l’audacia di possedere una tenda di colore diverso, l’unica persona che i suoi uomini temevano.
Rafi.
Lo stregone personale di Andronico, la creatura più sinistra che avesse mai incontrato, Rafi aveva sempre consigliato Andronico su ogni singolo passo, lo aveva protetto con la sua energia maligna, era stato più responsabile di chiunque altro della sua salita. Andronico odiava doversi rivolgere a lui adesso, ammettendo quanto avesse bisogno di lui. Ma quando incontrava un ostacolo che non fosse di questo mondo, qualcosa di appartenente alla magia, si rivolgeva sempre a Rafi.
Mentre Andronico si avvicinava alla tenda, due creature malvagie, alte e magre, avvolte in mantelli scarlatti, con occhi gialli che luccicavano da sotto i cappucci, lo fissarono. Erano le uniche creature nell’intero accampamento che potevano osare di non chinare il capo in sua presenza.
“Convoco Rafi,” disse Andronico.
Le due creature, senza voltarsi, allungarono ciascuno una sola mano e tirarono indietro i risvolti della tenda.
Ne uscì un odore orrendo che raggiunse Andronico e lo fece indietreggiare.
Vi fu una lunga attesa. Tutti i generali si fermarono alle spalle di Andronico e guardarono con impazienza, come anche gli altri dell’accampamento che si erano tutti girati a guardare. Nel campo calò il silenzio.
Finalmente emerse dalla tenda scarlatta una creatura magra e alta due volte Andronico, ossuta come il ramo di un olivo, vestita del tessuto scarlatto più scuro possibile, con un volto invisibile, nascosto da qualche parte nell’oscurità del suo cappuccio.
Rafi rimase lì a guardare e Andronico fu in grado di vedere solo i suoi occhi gialli, incavati nella sua carne pallidissima.
C’era un silenzio carico di tensione.
Alla fine fu Andronico a fare un passo avanti.
“Voglio Thorgrin morto,” disse.
Dopo una lunga pausa, Rafi sogghignò. Era uno suono profondo e fastidioso.
“Padri e figli,” disse. “Sempre la stessa storia.”
Andronico si sentiva ardere dentro, impaziente.
“Puoi aiutarmi?” insistette.
Rafi rimase in silenzio per molto tempo, abbastanza a lungo perché Andronico arrivasse a pensare di ucciderlo. Ma sapeva che sarebbe stato sciocco. Una volta, in un impeto di rabbia, aveva cercato di pugnalarlo e a mezz’aria il coltello gli si era sciolto in mano e l’elsa gli aveva pure bruciato il palmo. Gli ci erano voluti mesi per riprendersi dal dolore.
Quindi rimase lì, stringendo i denti e sopportando il silenzio.
Alla fine, da sotto il cappuccio, Rafi emise un ronzio.
“Le energie che circondano il ragazzo sono molto forti,” disse lentamente. “Ma tutti hanno un punto debole. Lui è stato elevato dalla magia. E la magia stessa può riportarlo a terra.”
Andronico, incuriosito, fece un passo avanti.
“Di che magia parli?”
Rafi fece una pausa.
“Un tipo di magia che non hai mai incontrato,” gli rispose. “Riservata solo a esseri come Thor. Lui è un tuo prodotto, ma è più di questo. È più potente anche di te. Se mai vivrà per dimostrarlo.”
Andronico ribolliva di rabbia.
“Dimmi come catturarlo,” gli chiese.
Rafi scosse la testa.
“Questa è sempre stata la tua debolezza,” gli disse. “Scegli di catturare e non di uccidere.”
“Prima voglio catturarlo,” ribadì Andronico. “Poi ucciderlo. Si può fare anche così, no?”
Seguì un altro lungo silenzio.
“C’è un modo di privarlo del suo potere, sì,” disse Rafi. “Senza la sua preziosa Spada, e senza il suo drago, sarà un ragazzino come tutti gli