che sinceramente non le era neanche passata per la testa da quando Kyle l’aveva attaccata. La dottoressa disse che, a parte l’insorgere di sintomi inaspettati, sarebbe dovuta tornare per un ulteriore controllo dopo sei mesi.
Fu solo quando si trovò nell’ascensore per scendere nel parcheggio che perse il controllo. Non era del tutto sicura del perché, ma si sentì come precipitare in un buco nero scavato nel terreno. Corse verso l’auto e si sedette alla guida, lasciandosi scuotere da un’ondata incontrollabile di singhiozzi.
E poi, nel mezzo delle lacrime, capì. Qualcosa nella finalità di quell’appuntamento l’aveva colpita. Non sarebbe dovuta tornare che dopo sei mesi. Sarebbe stata una visita normale. Lo stato di gravidanza, per il prossimo futuro, era finito.
Poté quasi sentire quella porta emotiva che andava a chiudersi sbattendo, e la cosa la scosse nel profondo. Oltre alla fine del suo matrimonio nel modo più scioccante possibile, unita alla consapevolezza che il suo padre omicida, che pensava di aver relegato al passato, era tornato nel presente, il rendersi conto che aveva avuto un essere vivente dentro di sé e che ora non c’era più era troppo da sopportare.
Uscì velocemente dal parcheggio, la vista offuscata dalle lacrime. Non le importava. Si trovò a premere con forza sull’acceleratore, immettendosi sulla Roberston. Era pomeriggio presto e non c’era molto traffico. Lo stesso, Jessie ondeggiava selvaggiamente da una corsia all’altra.
Davanti a lei, a un semaforo, vide un grosso camion in movimento. Premette con forza sull’acceleratore e sentì il collo scattare indietro mentre la velocità aumentava di scatto. Il limite di velocità era cinquanta all’ora, ma lei stava andando a settanta, settantacinque, oltre gli ottanta. Era certa che se avesse colpito quel camion con sufficiente forza, tutto il suo dolore sarebbe svanito in un istante.
Guardò alla propria sinistra, e mentre sfrecciava avanti vide una madre che camminava sul marciapiedi con un bimbetto di un anno. Il pensiero che quel bambino assistesse a una massa di lamiere aggrovigliate, lampi di fuoco e resti bruciacchiati la risvegliò.
Jessie premette con forza sui freni, facendo fischiare i copertoni fino a fermarsi subito dietro al camion. Entrò nel parcheggio di un distributore di benzina a destra e spense l’auto. Stava respirando affannosamente e l’adrenalina le scorreva in tutto il corpo, facendole sentire un formicolio quasi insopportabile alle dita di mani e piedi.
Dopo essere rimasta per circa cinque minuti seduta immobile lì con gli occhi chiusi, il suo petto smise di alzarsi e abbassarsi agitato e la respirazione tornò alla normalità. Jessie sentì una vibrazione e aprì gli occhi. Era il suo telefono. Lo schermo diceva che a chiamarla era il detective Ryan Hernandez del dipartimento di polizia di Los Angeles. Aveva fatto lezione alla sua classe di criminologia lo scorso semestre, dove lei lo aveva impressionato per come aveva risolto un esempio di caso che lui aveva presentato in aula. Le aveva anche fatto visita in ospedale dopo che Kyle aveva tentato di ucciderla.
“Pronto, pronto,” disse Jessie a voce alta, più per se stessa, per assicurarsi che la sua voce suonasse normale. Quasi. Rispose allora alla chiamata.
“Sono Jessie.”
“Salve, signorina Hunt. Sono il detective Ryan Hernandez. Ti ricordi di me?”
“Certo,” disse lei, felice di avere la sua solita voce. “Che succede?”
“So che ti sei recentemente laureata,” disse, la voce più esitante di quanto lei ricordasse. “Hai già trovato un posto?”
“Non ancora,” rispose lei. “Al momento sto valutando le possibilità.”
“In questo caso, vorrei parlarti di un lavoro.”
CAPITOLO QUATTRO
Un’ora dopo, Jessie era seduta nella sala d’aspetto della Stazione di Polizia locale centrale del dipartimento di polizia di Los Angeles, o come più comunemente veniva chiamato: Divisione Centrale. Qui stava aspettando il detective Hernandez. Si rifiutò espressamente di pensare a cosa sarebbe successo con l’incidente che aveva quasi causato. Era troppo da elaborare al momento. Si concentrò invece su ciò che stava per succedere.
Hernandez era stato criptico nella sua chiamata, dicendole di non poter svelare i dettagli, ma che c’era comunque una posizione aperta e che aveva pensato a lei. Le aveva chiesto di venire lì a discutere di persona, dato che voleva valutare il suo interesse prima di passare il suo nome ai piani alti.
Mentre Jessie aspettava, cercò di riportare alla memoria ciò che sapeva di Hernandez. Lo aveva incontrato quell’autunno, quando aveva presenziato alla lezione di psicologia forense nel programma del suo corso di laurea per discutere delle applicazioni pratiche della profilazione. Era saltato fuori che quando era un normale poliziotto, il suo ruolo nella cattura di Bolton Crutchfield era stato cruciale.
In aula aveva presentato agli studenti un elaborato caso di omicidio e aveva chiesto se qualcuno potesse determinare l’esecutore e il movente. Solo Jessie aveva risolto il dilemma. In effetti Hernandez le aveva detto che era stata solo la seconda studentessa ad arrivare alla soluzione di quel caso.
La volta successiva che l’aveva visto era stato in ospedale, quando si stava riprendendo dall’aggressione di Kyle. Era ancora un po’ sotto sedativi al tempo, quindi la sua memoria era un po’ vaga.
Era andato lì solo perché lei lo aveva chiamato, sospettosa del passato di Kyle prima del loro incontro a diciott’anni, sperando in qualche dritta da parte sua. Gli aveva lasciato un messaggio in segreteria e quando lui non era riuscito a mettersi in contatto con lei diverse volte – principalmente perché suo marito l’aveva legata in casa loro – aveva fatto rintracciare il cellulare e aveva scoperto che si trovava in ospedale.
Quando le aveva fatto visita, le era stato di aiuto, guidandola nel caso sospeso contro Kyle. Ma era stato anche chiaramente sospettoso (con buon motivo) che Jessie non avesse fatto tutto il possibile per uscirne pulita dopo che Kyle aveva assassinato Natalia Urgova.
Era vero. Dopo che Kyle l’aveva convinta che era stata lei a uccidere Natalia in un attacco di rabbia sotto l’effetto dell’alcool – che lei non ricordava –, le aveva offerto di coprire il crimine gettando in mare il corpo della donna. Nonostante i suoi dubbi al tempo, Jessie non era stata convincente nell’idea di andare alla polizia a confessare. Era una cosa di cui oggi si pentiva.
Hernandez aveva alluso alla cosa, ma per quanto lei ne sapeva, non aveva mai detto nulla a nessuno dopo quel momento. Una piccola parte di lei temeva che quello fosse il vero motivo per cui l’aveva chiamata lì, e che il lavoro fosse solo una pretesa per farla venire alla stazione di polizia. Immaginò che se l’avesse portata nella sala degli interrogatori, avrebbe capito dove volesse andare a parare.
Dopo pochi minuti, venne fuori a salutarla. Era praticamente come se lo ricordava: sulla trentina, di buona costituzione, ma non particolarmente imponente. Con circa un metro e ottantacinque di altezza e forse una novantina di chili di peso, era chiaramente in ottima forma. Fu solo quando le fu vicino, che Jessie ricordò quanto fosse carino.
Aveva i capelli corti neri, gli occhi castani e un largo e caldo sorriso che probabilmente metteva a loro agio addirittura i sospettati. Si chiese se lo curasse proprio con quell’intento. Vide la fede nuziale sulla mano sinistra e ricordò che era sposato, ma non aveva figli.
“Grazie per essere qui, signorina Hunt,” le disse porgendole la mano.
“Mi chiami Jessie, per favore,” gli disse lei.
“Ok, Jessie. Andiamo alla mia scrivania e ti faccio sapere cos’ho in mente.”
Jessie sentì un’ondata di sollievo più forte di quanto si sarebbe aspettata quando non le suggerì la stanza degli interrogatori, ma riuscì ad evitare di renderla troppo evidente. Mentre lo seguiva nel suo ufficio, lui le parlò sottovoce.
“Ho continuato a tenermi aggiornato sul tuo caso,” ammise. “O per essere più precisi, il caso di tuo marito.”
“A breve ex,” puntualizzò lei.
“Giusto.