cercando di raccoglierli mandandoli verso il professor Ametisto.
Fu a quel punto che Oliver si rese conto di ciò che stava accadendo. Il professor Ametisto aveva attivato il portale nascosto per i viaggi nel tempo all’interno del kapoc e al centro dell’albero si era formato un grosso vortice. Gli studenti indovini vi stavano entrando in fretta e furia, scomparendo chissà dove.
Stavano evacuando la scuola.
“Questo è l’ultimo!” gridò la dottoressa Ziblatt, il camice bianco da laboratorio sporco e striato di terra. “La scuola è vuota.”
“Allora andate!” esclamò il professor Ametisto.
Lei lo guardò con le lacrime che le luccicavano negli occhi. Gli strinse la mano con forza. “Buona fortuna, signore! Spero di rivederla dall’altra parte.”
Il vecchio preside annuì. Poi la dottoressa Ziblatt saltò nel vortice e scomparve.
Oliver stentava a credere a ciò che stava succedendo. Sapeva che l’attivazione dell’Elisir avrebbe avuto risultati imprevedibili, ma mai neanche tra un milione di anni avrebbe pensato che potesse portare la sua adorata scuola ad autodistruggersi! La Scuola degli Indovini doveva essere indistruttibile! O almeno lui l’aveva sempre percepita come tale. Ma il suo continuo intromettersi nelle linee temporali e nel corso della storia per salvare la vita di Esther aveva chiaramente avuto un impatto devastante quanto inaspettato. Aveva salvato Esther, ma a che costo?
In quel momento il professor Ametisto li scorse nel corridoio. “Veloci!” gridò, facendo segno a Oliver e ai suoi amici da dove si trovava accanto al vortice nel kapoc.
Oliver si girò a guardare i suoi amici che aspettavano dietro di lui: Walter, Simon, Hazel e Ralph, i migliori amici che un ragazzo avrebbe mai potuto desiderare.
“La scuola sta crollando,” balbettò, la gola stretta dall’incredulità. Non la Scuola degli Indovini. Non il suo rifugio. “Dobbiamo evacuare.”
“Andiamo,” disse Hazel, lottando per stare dritta in piedi nonostante la forza degli scossoni.
Le pareti tremavano e continuavano ad essere scosse mentre il gruppo si faceva strada barcollando verso il professor Ametisto. Il terremoto era così violento che era così difficile che sembrava di annaspare in mezzo alla melassa.
Un pezzetto alla volta, il gruppo ridusse la distanza tra loro e la possibilità di fuga verso la salvezza.
Ma erano ad appena un metro dall’albero quando ci fu un fortissimo schianto dall’alto.
Oliver sussultò e portò lo sguardo in su di scatto. Uno degli enormi rami del kapoc si era staccato dall’albero e stava cadendo, dritto verso Esther!
Senza fermarsi a pensare neanche un nanosecondo, Oliver si tuffò in avanti spingendo Esther da parte. Andarono a sbattere sul pavimento con un doloroso schianto e Oliver le cadde sopra con forza. Il ramo atterrò accanto a loro, portando con sé detriti che caddero a pioggia su di loro.
Esther tossì e sbirciò tra le braccia con cui si era coperta il volto. “Grazie,” disse con voce roca. Poi tossì ancora, sommersa dalla polvere fine che si era sollevata dal crollo delle pareti.
In quel momento Oliver sentì il professor Ametisto gridare: “NO!”
Oliver sollevò lo sguardo e nella nube di polvere vide che il vortice era sparito. Al suo posto c’era un enorme crepa zigzagante che tagliava a metà l’intero tronco del kapoc. Il portale temporale era andato distrutto.
E adesso? pensò Oliver disperatamente mentre si rimetteva in piedi.
Se fossero riusciti ad arrivare alla sesta dimensione, forse avrebbero avuto una possibilità, ma quella si trovava nella parte più alta della scuola, al piano terra, e loro adesso erano in fondo, cinquanta piani sottoterra.
Oliver si sentiva devastato.
Il professor Ametisto li raggiunse di corsa. “Veloci. Venite. Venite subito,” disse, facendo loro segno di seguirlo.
Oliver non aveva mai visto il preside così agitato. Così spaventato. Questo non faceva che rendere ancora più chiara la situazione in cui realmente si trovavano.
La banda si fece avanti insieme al professor Ametisto. L’anziano preside li condusse lungo un corridoio contrassegnato da una X, una zona vietata agli studenti. Oliver non aveva idea di dove li avrebbe portati o di quale fosse ora il piano del professor Ametisto. Ma si fidava sempre del preside. Il suo mentore non li aveva mai delusi fino ad ora.
Corsero lungo il corridoio, e le scosse erano così intente che Oliver sentiva i propri denti che tremavano. Era come trovarsi vicino a un trapano pneumatico. Ne poteva sentire le vibrazioni in ogni fibra del suo corpo.
Alla fine riuscirono a raggiungere la fine del corridoio. Davanti a loro c’era una porta. Sembrava molto simile a quella attraverso la quale avevano viaggiato per tornare qui dal laboratorio di Leonardo da Vinci, dove lui li aveva aiutati a creare il prezioso Elisir che avevano usato per curare Esther. Lo stesso Elisir, pensò Oliver con amarezza, che ora aveva innescato quella disastrosa reazione.
Il professor Ametisto aprì la porta con forza. Una folata di vento sembrò risucchiare Oliver verso l’esterno. Lui afferrò istintivamente la mano di Esther. Guardò a destra e a sinistra per assicurarsi che i suoi amici si tenessero l’uno all’altro: Walter e Simon, Simon e Ralph, e così via, in una catena che permetteva di combinare le loro forze per resistere alla potenza battente del vento.
“Dovete saltare!” gridò il professor Ametisto.
Oliver guardò attraverso la porta aperta. Tutto quello che vi poteva vedere era il buio.
“Dove ci porterà?” chiese.
Il vento gli sferzava i capelli biondi spettinandoglieli e coprendogli gli occhi. Si rese conto che stava tremando. Esther stringeva la sua mano con forza.
“Andate e basta!” gridò il preside.
Oliver lanciò una rapida occhiata ai suoi amici. Si rese conto che stavano aspettando che lui dicesse loro cosa fare. Che fosse lui a saltare per primo. Che fosse coraggioso e mostrasse loro come si faceva.
Oliver deglutì e cercò di calmarsi. Lasciò andare la mano di Esther e di Ralph e si lanciò nel buio.
CAPITOLO UNO
Nel nero vuoto del niente, Christopher Blue avvertì una specie di sferzata, come delle calamite che vengono attratte tra loro. Era una sensazione orribile, una sensazione alla quale si era dolorosamente abituato: la sensazione dei suoi atomi che si ricomponevano tra loro tornando a unirsi. Sapeva cosa sarebbe successo poi, una volta riprese le proprie sembianze umane: quel sentirsi tirare, dividere, schiacciare, fare a pezzi, atomo per atomo. Quante volte ormai aveva vissuto quest’esperienza? Cento? Un milione? Erano giorni o anni che si trovava, qui incastrato in questo cerchio misero e infinito? Non c’era modo di saperlo. Tutto quello che sapeva riconoscere era il continuo spingere e tirare del vuoto, la sensazione di un odio che lo consumava, e il nome Oliver.
Oliver. Suo fratello. L’oggetto del suo intenso odio. Il motivo per cui era finito qui.
Non c’era nient’altro nel vuoto. Nessun rumore. Nessuna luce. Solo quella terribile sensazione di atomi incastrati in un continuo essere fatto a pezzi per venire poi rimesso insieme. Ma Chris aveva ancora i suoi ricordi, ed essi si ripetevano con la stessa frequenza della lacerazione degli atomi. Ricordava Oliver. Il suo momento di codardia nell’Italia antica, quando si era reso conto di non poterlo uccidere. E ricordava i portali che si chiudevano su di lui, facendolo a pezzi arto per arto e spedendolo in questo posto in mezzo al tempo. Si soffermava sui suoi ricordi mentre passava un doloroso ciclo dopo l’altro.
Poi, all’improvvisò, qualcosa cambiò. Ci fu la luce.
Luce? pensò Chris.
Si era quasi scordato dell’esistenza di una cosa del genere.
E