Луиджи Пиранделло

Uno, nessuno e centomila


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Fuori all'aperto.

      No, via, non abbiate paura che vi guasti i mobili, la pace, l'amore della casa.

      Aria! aria! Lasciamo la casa, lasciamo la città. Non dico che possiate fidarvi molto di me; ma, via, non temete. Fin dove la strada con quelle case sbocca nella campagna potete seguirmi.

      Sí, strada, questa. Temete sul serio che possa dirvi di no? Strada strada. Strada brecciata; e attenti alle scaglie. E quelli sono fanali. Venite avanti sicuri.

      Ah, quei monti azzurri lontani! Dico «azzurri»; anche voi dite «azzurri», non è vero? D'accordo. E questo qua vicino, col bosco di castagni: castagni, no? vedete, vedete come c'intendiamo? della famiglia delle cupulifere, d'alto fusto. Castagno marrone. Che vasta pianura davanti («verde» eh? per voi e per me «verde» diciamo cosí, che c'intendiamo a maraviglia); e in quei prati là, guardate guardate che bruciare di rossi papaveri al sole! – Ah, come? cappottini rossi di bimbi? – Già, che cieco! Cappottini di lana rossa, avete ragione. M'eran sembrati papaveri. E codesta vostra cravatta pure rossa... Che gioja in questa vana frescura, azzurra e verde, d'aria chiara di sole! Vi levate il cappellaccio grigio di feltro? Siete già sudato? Eh, bello grasso, voi, Dio vi benedica! Se vedeste i quadratini bianchi e neri dei calzoni sul vostro deretano... Giù, giù la giacca! Pare troppo.

      La campagna! Che altra pace, eh? Vi sentite sciogliere. Sí; ma se mi sapeste dire dov'è? Dico la pace. No, non temete non temete! Vi sembra propriamente che ci sia pace qua? Intendiamoci, per carità! Non rompiamo il nostro perfetto accordo. Io qua vedo soltanto, con licenza vostra, ciò che avverto in me in questo momento, un'immensa stupidità, che rende la vostra faccia, e certo anche la mia, di beati idioti, ma che noi pure attribuiamo alla terra e alle piante, le quali ci sembra che vivano per vivere, cosí soltanto come in questa stupidità possono vivere.

      Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sí, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive piú cosí per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensí per qualche cosa che non c'è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l'affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia. Capisco, capisco. Rilascio di nervi. Accorato bisogno d'abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate.

      Ah, non aver piú coscienza d'essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi piú neanche del proprio nome! Sdraiati qua sull'erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole; udire il vento che fa lassú, tra i castagni del bosco, come un fragor di mare.

      Nuvole e vento.

      Che avete detto? Ahimè, ahimè. Nuvole? Vento? E non vi sembra già tutto, avvertire e riconoscere che quelle che veleggiano luminose per la sterminata azzurra vacuità sono nuvole? Sa forse d'essere la nuvola? Né sanno di lei l'albero e la pietra, che ignorano anche se stessi; e sono soli.

      Avvertendo e riconoscendo la nuvola, voi potete, cari miei, pensare anche alla vicenda dell'acqua (e perché no?) che divien nuvola per divenir poi acqua di nuovo. Bella cosa, sí. E basta a spiegarvi questa vicenda un povero professoruccio di fisica. Ma a spiegarvi il perché del perché?

      Sentite, sentite: su nel bosco dei castagni, picchi d'accetta. Giù nella cava, picchi di piccone.

      Mutilare la montagna, atterrare alberi per costruire case. Là, nella vecchia città, altre case. Stenti, affanni, fatiche d'ogni sorta; perché? Ma per arrivare a un comignolo, signori miei; e per fare uscir poi da questo comignolo un po' di fumo, subito disperso nella vanità dello spazio.

      E come quel fumo, ogni pensiero, ogni memoria degli uomini.

      Siamo in campagna qua; il languore ci ha sciolto le membra; è naturale che illusioni e disinganni, dolori e gioie, speranze e desiderii ci appajano vani e transitorii, di fronte al sentimento che spira dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili. Basta guardare là quelle alte montagne oltre valle, lontane lontane, sfumanti all'orizzonte, lievi nel tramonto, entro rosei vapori.

      Ecco: sdrajato, voi buttate all'aria il cappellaccio di feltro: diventate quasi tragico; esclamate:

      – Oh ambizioni degli uomini!

      Già. Per esempio, che grida di vittoria perché l'uomo, come quel vostro cappellaccio, s'è messo a volare, a far l'uccellino! Ecco intanto qua un vero uccellino come vola. L'avete visto? La facilità piú schietta e lieve, che s'accompagna spontanea a un trillo di gioja. Pensare adesso al goffo apparecchio rombante e allo sgomento, all'ansia, all'angoscia mortale dell'uomo che vuol fare l'uccellino! Qua un frullo e un trillo; là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta; il motore s'arresta; addio uccellino!

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