trattarsi di un caso di palese imbecillità da parte di qualcuno, se non di tutti. Eppure mi pareva strano che neppure il dottor Beltrami, apparentemente una persona molto in gamba, fosse riuscito a cambiare questo stato di cose. Forse c’era dietro una storia ben più complessa e interessante, ma non riuscii a farmi spiegare molto di più dal mio interlocutore.
“ Non ho idea di dove abiti questo Aristide. Mi pare che le sue cartoline provenissero sempre dai luoghi più disparati, da tutto il mondo. Potrebbe essere stato un ex fidanzato, ma forse invece un cugino o anche solo un amico di penna. Sempre saluti affettuosi, niente di più: sa, me le leggevano quando gliele portavo. Veramente non saprei proprio dirle altro.”
Così telefonai ai Bagnucci.
“ Pronto?”
“ Buongiorno, cercavo la signora Bagnucci.”
“ Si, sono io: chi parla?”, mi rispose una voce con uno spiccato accento veneto.
“ Cercavo Clara, Clara Bagnucci: ho fatto il numero giusto?”
“ Sì, Clara è mia figlia. Dica pure a me.”
“ E’ per via di alcune cartoline che arrivano ancora a casa mia, o meglio, quella che da qualche mese è diventata casa mia.”
“ Ah, capisco. Il dottor Beltrami mi aveva accennato alla possibilità di trasferirsi. Peccato: una persona tanto cara e premurosa. E’ sempre un piacere quando viene a trovarci. A pensarci bene, in effetti, è già da un po’ che non passa. Comunque per le cartoline, se per lei non è troppo disturbo mettercele da parte, quando poi passa uno dei miei figli facciamo un salto a prenderle. Sa, alla mia Clara fanno così piacere, che lei davvero non si immagina.”
“ Va bene, signora, non si preoccupi. Quando volete. Magari mi date un colpo di telefono prima, per non fare il viaggio a vuoto. Al limite posso anche passare io da lei, qualche volta che già mi trovo ad essere in paese.”
“ Grazie, grazie mille, ma non voglio che si disturbi troppo per noi, per due cartoline, signor … a proposito, come ha detto che si chiama?”
Finii per andare io da loro. Suonai alla porta. A dire il vero non ottenni una risposta molto sollecita: forse avevo disturbato qualche pennichella.
“ Chi è?”
Riconobbi l’accento veneto della signora Bagnucci.
“ Sono venuto per le cartoline. Si ricorda? Le ho telefonato un paio di giorni fa.”
Seguì un lungo armeggiare di chiavi e serrature, poi la signora, in abiti casalinghi, mi aprì e mi invitò ad entrare.
“ Prego, venga, si accomodi pure.”
“ Non c’è bisogno che si disturbi, signora, anche perché non ho molto tempo e ho parcheggiato la macchina …” Non mi stava affatto ascoltando, da come iniziò a chiamare sua figlia.
“ Clara! Clara! Vieni che ci sono delle cartoline per te!”, chiamò a un discreto volume annientando così le mie timide scuse. Tra l’altro non avevo nessun vero impegno per il pomeriggio, e per non lasciarmi trattenere avrei dovuto inventarmene uno.
“ Venga, si accomodi in salotto. Stavo giusto per preparare del tè. O preferisce qualcos’altro?”
Mentre riordinavo le idee per organizzare una fuga rapida e decorosa, sentivo in arrivo dall’altra stanza dei rumori affrettati e indefinibili.
“ Fai piano, Clara, attenta a non farti male.” Poi rivolgendosi a me: “Lei non ha idea di come scendeva le scale, quando abitavamo in villa. Anche per questo l’abbiamo venduta: ci mancava anche di cadere dalle scale, oltre a tutti i guai che già avevamo. Per il resto la villa è un vero paradiso, non trova?”
Quando il trambusto si placò, la ragazza era apparsa all’ingresso affannata. Portava occhiali da sole scuri, ed accarezzava un grosso cane altrettanto scuro che le scodinzolava festoso tra le gambe.
“ Andiamo a sederci in salotto”, disse la signora. Il cane, dopo qualche annusatina esplorativa, sembrava trovarmi interessante.
“ Sente l’odore di Rintintin. A proposito, dottore, come sta il suo cane?” Clara aveva una voce squillante, da bambina, in contrasto con il suo incedere malfermo e quasi barcollante.
“ Se ti fossi tolta gli occhiali ti saresti già accorta che non è il dottor Beltrami.” La ragazza, dopo quella ramanzina in veneto, si tolse gli occhiali malvolentieri e mi fissò.
Anch’io la fissai a lungo, incantato. Non ricordo di aver mai visto degli occhi così belli. Sfumature di verde e marrone che li facevano somigliare a piccole stelle. Due preziose finestrelle colorate da cui si intravedeva un lago di purezza e di ingenuità fanciullesca: la sua anima semplice traboccava bellezza dallo sguardo, dalla voce e dal sorriso.
Mi dispiaceva che quei bellissimi occhi mi fossero rimasti nascosti fino a quel momento. Mi dispiaceva ancor di più vedere che mi fissavano così a lungo e in quel modo, stanchi, quasi non riuscissero a mettermi a fuoco. Come capii presto, erano diventate due finestre opache per la sua anima, e non so se la malattia o la pigrizia avevano tolto loro in parte quella vivacità che ancora era rimasta nella voce.
Mi parvero secondi interminabili. Mi sentivo in imbarazzo in quell’intenso e silenzioso fissare ed essere fissato, ma non riuscivo a fare altro. E comunque, alla fin fine, in tutta la mia visita non ho detto che pochissime parole, data la loquacità delle due donne.
“ Allora lei non sa come sta Rintintin?”
“ Oh, si che lo sa. Mi stava giusto raccontando di come ha conosciuto il dottor Beltrami e di come gli sia piaciuto il suo cane.” Senza farsene accorgere dalla ragazza, la signora mi faceva cenni di stare al gioco. Non era difficile, perché ricordavo bene i miei incontri col signor Beltrami alla villa. Provai una bella sensazione nell’alimentare un sogno che tramite Clara riempiva di vita quella casa e quella famiglia.
“ Già, davvero un bel cane quel pastore tedesco.” Mentre lo dicevo lo pensavo anche. Un pensiero nuovo che non mi aveva mai sfiorato in precedenza, visto che i cani e gli animali in genere mi erano sempre stati indifferenti.
“ Sa, era nostro anche lui, prima. Ma poi non abbiamo potuto portarli qui tutti e quattro, e per fortuna il dottor Beltrami si è tenuto Rintintin. Ma adesso basta parlare di cani, Clara: fai vedere al signore la tua raccolta di cartoline, che è molto più interessante.”
Erano disposte in tre raccoglitori per fotografie, molto curati. Quello più piccolo conteneva quelle che non provenivano da Aristide o che non erano indirizzate a Clara, ma che comunque coinvolgevano la famiglia. Di quelle di Aristide ce n’erano due album, uno per l’Italia ed uno per il resto del mondo.
Alcune erano fuori misura, ed avevano richiesto tagli o adattamenti all’album per poterle contenere. Tutte erano corredate da quella che doveva essere stata una didascalia leggibile, ma che al momento sembrava solo una strisciolina di plastica incolore. Doveva però aver mantenuto il rilievo, perché lei passandoci sopra col dito riusciva a descrivermi con esattezza ognuna di esse anche senza guardarle. O forse le conosceva tutte a memoria.
“ Queste sono le Dolomiti. E questo è il duomo di Milano. Sono tutte belle, ma a me piace soprattutto questa di sughero.”
Era davvero un gioiellino: una sottile foglia di legno disegnata con gli sgargianti colori di un costume tipico sardo.
Quelle cartoline dovevano avere per quella famiglia un valore ben maggiore del semplice interesse che comunque suscitavano in me. “Sa, le ha conservate proprio tutte, dalla prima che ha ricevuto”, mi spiegò la madre.
“ Sì, tranne