casa. L'ho chiamato".
Sulla porta c'era un cartello, solo un foglio di carta bianca con alcune parole stampate con inchiostro nero, tenuto agli angoli con nastro adesivo.
"Sono passati solo pochi minuti". La donna all'interno abbassò la voce, quasi al punto che Sara non riuscì a sentire. Spinse delicatamente la porta, aprendola ancora di un paio di centimetri. "Ho lasciato mio figlio di due anni nell'appartamento da solo, ma è stato solo per pochi minuti". All'interno della stanza, Sara poteva vedere le donne sedute a semicerchio, una di fronte all'altra, con espressioni sommesse, quasi funerarie.
"Ma in quei pochi minuti, il mio ex ragazzo, il padre del mio bambino, decise di passare da me". La donna che parlava fissava il pavimento. Aveva la pelle pallida e senza trucco, i capelli castani raccolti in una coda di cavallo semplice e fatta in fretta. "Sono tornata con la roba in mano e l'ho trovato con mio figlio in braccio. Da quel giorno l'ho perso…"
Improvvisamente una faccia riempì la porta parzialmente aperta, facendo sussultare Sara che fece un piccolo balzo all'indietro. Una donna le sorrise, aveva l'aspetto in qualche modo giovane e matronale allo stesso tempo, come quel tipo di mamma sportiva sempre pronta ad invitare a cena gli amici dei figli.
"Ciao", disse la donna piano, per non interrompere l'incontro che si stava svolgendo alle sue spalle. "Sei qui per noi?"
“Ehm io…" Sara si schiarì la voce e scosse rapidamente la testa. "No. No davvero. Stavo solo curiosando. Mi dispiace".
"Non preoccuparti". La donna fece un piccolo passo nel corridoio e chiuse delicatamente la porta dietro di sé. "Siamo un gruppo di supporto per le donne che hanno vissuto diversi tipi di traumi. Tossicodipendenza, violenze domestiche, depressione… Condividiamo le nostre esperienze e attraverso le altre troviamo…"
"dei legami comuni", mormorò Sara. "Sì, ho capito".
La donna le sorrise. "Esatto". Poi fece qualcosa di strano: guardò Sara negli occhi, e corrugò la fronte come per aggrottare le sopracciglia, anche se il sorriso non abbandonò mai le sue labbra.
A Sara non piaceva affatto quello sguardo. Era come se la donna stesse leggendo dentro di lei.
“Sei sicura di non voler entrare? Puoi semplicemente sederti e ascoltare. Non devi dire niente".
"No. Grazie. va bene così…" Sara fece un altro passo indietro. "In effetti, stavo andando via". Aveva fatto bene da sola senza riabilitazione; di certo non aveva bisogno di un "gruppo di supporto".
Si voltò, ma la donna continuò a parlare. "Sono Maddie, comunque".
"Sara", la chiamò.
"È stato un piacere conoscerti. Ci vediamo, Sara".
No, non credo. Sara si affrettò lungo il corridoio. All'improvviso il freddo di febbraio nel Maryland le sembrò quasi accogliente.
CAPITOLO SEI
Maya fissava il cellulare che teneva in mano. Il registro delle chiamate era aperto, il numero era lì. Doveva solo toccarlo.
Magari domani.
Si sedette a gambe incrociate sul suo letto, nascosto in un angolo della camera, di fronte a Sara. Gli spazi a volte erano angusti, ma mai come nelle baracche di West Point a cui era abituata. E Sara aveva avuto quattro coinquilini quando viveva a Jacksonville, quindi quel tipo di sistemazione poteva andar bene ad entrambe. In diverse occasioni avevano rifiutato l'offerta del padre di farle dormire nella camera più grande dell'appartamento.
Maya lanciò il telefono sul copriletto accanto a una copia in gran parte ignorata dell'Ulisse ("Un trionfo di masochismo", come lo chiamava suo padre) e una barretta proteica mangiata a metà. Voleva fare la chiamata. E l'avrebbe fatto. Ma non quel giorno.
Il numero, se avesse avuto il coraggio di chiamarlo, l'avrebbe messa in comunicazione con l'ufficio della preside di West Point, il generale di brigata Joanne Hunt. L'ufficio della Hunt aveva chiamato Maya non meno di quattro volte nelle ultime due settimane, ma non avevano lasciato messaggi vocali o qualsiasi altra indicazione sul perché stessero cercando di raggiungerla.
Non ce n'era bisogno, e lei sapeva perché. Dopo un'esperienza straziante nello spogliatoio femminile e una lite con tre ragazzi durante la quale Maya aveva picchiato gravemente due di loro e quasi ucciso il terzo, la preside Hunt le aveva gentilmente offerto di prendersi una pausa per il resto del semestre autunnale, in attesa di farla tornare in gennaio, dopo la pausa invernale.
Ma Maya non era tornata ed era troppo tardi per farlo ora. Si era persa troppo. Aveva prolungato inutilmente la sua istruzione di almeno sei mesi, un duro colpo per il suo obiettivo di diventare il più giovane agente della CIA nella storia dell'organizzazione.
Aveva solo bisogno di più tempo. Questo è quello che aveva detto a suo padre e sua sorella. Ancora un po' di tempo con sé stessa e con loro e poi sarebbe ritornata. Ma sapeva benissimo che ogni giorno passato senza fare quella telefonata l'avrebbe allontanata sempre di più dal suo ritorno.
La porta dell'appartamento si aprì e Maya si irrigidì per un attimo, una reazione naturale dato il numero di volte in cui qualcuno era entrato nella loro casa con l'intenzione di ucciderle o rapirle. Ma sapeva riconoscere i passi di suo padre ed il suo sospiro frustrato quando la porta si bloccava leggermente, perché il legno si era espanso a causa del freddo, e tornò a respirare regolarmente.
"Tesoro, sono tornato!" Disse.
"Chi è il tesoro?" Rispose Maya con un sorriso.
"Chiunque risponda, immagino".
"Ci sono solo io".
Lui apparve sulla soglia, sorridendo. "Allora, ciao, tesoro. Dov'è tua sorella?"
"Lezione d'arte al Centro ricreativo".
“Bene. Dimenticavo che lo stava seguendo. Ma sono contento che lo faccia. Ha bisogno di un passaggio?"
"No, è andata in bici".
Suo padre batté le palpebre. "In febbraio?"
“Ha detto che le piace il freddo. La tiene vigile".
“Uhm. E poi sarei strano io".
Maya scivolò giù dal letto e lo seguì in cucina, dove frugò nel frigo e prese una birra leggera. Dopo essersi levato il cappello, si passò una mano tra i capelli e sospirò prima di prenderne un sorso.
"Sei frustrato", osservò Maya.
"No, sto bene. Felice come un bambino". Tentò di ingannarla con un sorriso, ma lei non ci cascò. "In realtà dovresti dire, felice come un bambino in alto mare". Sai che quel modo di dire risale al 1841? Alcuni addirittura lo attribuiscono a Robert E. Lee…"
Si interruppe mentre lei incrociò le braccia e sollevò un sopracciglio. “Sei frustrato. O arrabbiato per qualcosa. Forse entrambe le cose. Non ti sei tolto le scarpe quando sei entrato, sei andato dritto a bere una birra, ti sei toccato i capelli e hai sospirato…"
"Non è vero", disse lui.
"E ora stai cercando di sviare", concluse lei. "Scommetto che eri sul punto di dirmi di ordinare le pizze stasera". La pizza era la sua soluzione nelle serate in cui aveva troppe cose per la testa.
"Bene, hai vinto". Aggiunse in un mormorio: "a volte vorrei aver avuto figlie più stupide. O magari con un senso dell'osservazione meno sviluppato".
"Vuoi dirmi come sono andate le tue commissioni?" Chiese Maya.
Ci pensò un momento, poi disse: "Mettiti una giacca".
Prese il cappotto e lo seguì sul loro piccolo balcone, grande abbastanza per contenere due sedie e un piccolo tavolino di vetro. Ma non si sedettero; suo padre chiuse la porta a vetri alle loro spalle e si appoggiò alla ringhiera.
Maya si abbottonò la giacca contro l'aria fredda dell'inverno e incrociò le braccia. "Sputa il rospo".
"Ho cercato una persona", le disse, mantenendo la voce abbastanza bassa da permetterle di sentire. “Un agente o qualcuno che lo era circa cinque anni fa circa. Si chiama Connor".
"E'