al timore di rovinarmi. E comunque per lei era un rito altrettanto sacro, e forse anche più impegnativo, della preghiera di un maomettano. Ricordo con quanta cura mi rimettesse al posto che mi aveva prefissato ogni volta che, dopo una scappatella, non riprendevo l’esatta posizione.
Il mio maggior cruccio è che da tanto tempo ormai, in presenza di adulti, mi sento costretto a restare immobile come un volgare scendiletto. L’ultimo svolazzamento di un certo rilievo lo feci quando la signora Maria, la nipote di nonna Ida, mi scaricò vicino al bidone della spazzatura. Che affronto! Un vero tappetino persiano antico di seta! Solo perché si erano appena insediati come sposini in quella casa si arrogavano il diritto di decidere della mia sorte, senza rispettare le vecchie sane abitudini della nonna. Gli ho evitato una grossolana sciocchezza. Attraverso una finestra sono tornato di nascosto al mio posto, nel bagnetto di servizio: lei ha pensato che fosse la volontà del marito e mi ha lasciato lì. Ma da allora non mi ha più lavato. Non solo, ma mi ha trattato peggio del peggiore straccio della casa: ho conosciuto ombrelli bagnati, scarpe infangate, e altre simili sconcezze. Forse era meglio la spazzatura.
Certo ho avuto tanto tempo per scorrazzare liberamente per casa in loro assenza. Ma ho sempre evitato di farmi vedere, e appena sentivo la chiave nella toppa mi precipitavo al mio posto e vi rimanevo immobile come se nulla fosse successo. Quella proprio non era vita.
Un giorno ho voluto provare la loro reazione nel vedermi muovere. Mi venne l’idea quando trovai da qualche parte della casa il cadavere di uno scarafaggio. Me lo nascosi sotto e alla sera, mentre stavano mangiando, mi trascinai lentamente verso la cucina. Che scena! Ricordo le urla spaventate di lei, ma ricordo anche i colpi di bastone e di piedi che ricevetti dal marito, il quale alla fine si dette anche delle arie per quel cadavere di cui non aveva alcun merito. Io ci presi delle gran botte, ma per fortuna sono di ottima fattura e non ne ebbi alcun danno.
In seguito acquistai di dignità e prestigio grazie a ciò che loro avevano di più caro e più bello: parlo del loro figlioletto Giorgio. Non quando era molto piccolo, perché lo tenevano nei suoi spazi ristretti sotto continua sorveglianza. Ma quando cominciò a camminare e ad avere più libertà, elaborai il mio piano di rivalsa.
Appena non c’erano adulti in vista, mi trascinavo fino a lui. Era un gran simpaticone, mi guardava scodinzolare senza avere reazioni isteriche ed anzi con interesse, ogni volta toccandomi e prendendomi tra le dita come se non mi avesse mai visto prima. Potrei dire che giocavamo insieme. Quando tornava un adulto, lo rimproveravano di giocare con una cosa così sporca. Ma io insistevo. Tornavo da lui appena potevo, ed a volte era lui stesso a venire da me. Sapevo il rischio che correvo, di essere eliminato per motivi igienici; ma sapevo anche che si trattava di una famiglia che, seppur arida di fantasia e di buon gusto, non difettava di buon senso. Ed infatti alla fine decisero che avevo bisogno di una bella lavata.
Inizialmente ne fui molto contento, anche perché ciò significava essere accettato ufficialmente come compagno di giochi di Giorgio. Lo fui un po’ meno dopo aver provato un lavaggio con centrifuga in una di queste infernali macchine lavatrici moderne, con un detersivo tale che temetti per i miei colori. Non lo auguro a nessuno. Alla fine mi sentivo come se il mondo si fosse sdraiato sopra di me, e per giunta ero zuppo come una spugna ubriaca. Però devo dire che i miei colori erano tornati come non li ricordavo da tempo, forse addirittura come non erano mai stati. Chiunque mi avrebbe trovato bello.
Insieme ad un’altra montagna di biancheria e panni umidi fui ammassato in una cesta. Mi sentivo soffocare. Volevo scappare, a costo di buttare tutto sul pavimento, ma resistetti: sapevo infatti che di lì a poco si sarebbe svolto il rito settimanale della stenditura. Stavolta però, e questa era la novità, l’avrei vissuto in prima persona.
Poco dopo, infatti, la signora Maria salì in terrazza con la cesta. Dapprima mi sentii alleggerire di quel peso soffocante che mi sovrastava; poi venne il mio turno, mi distese per la mia lunghezza e mi sdraiò su un filo. Come se non bastasse questo fastidio, mi strinse una molletta a ciascuna estremità. Un martirio.
Un pallido sole ed un vento sostenuto guarnivano quel pomeriggio autunnale. Un’altra signora stava infliggendo lo stesso supplizio ad altri capi colorati. Le due donne dovevano conoscersi bene, a giudicare dal tono della conversazione.
“Appena se ne vanno”, pensai, “me la svigno anch’io.”
Nel frattempo il filo si abbassava sotto il peso di nuovi panni. Di uno molto pesante in particolare.
“Oh, ma questa è davvero bellissima! Da dove viene?”
“È di mia nonna”, rispose la signora Maria. “Guarda che bei ricami, fatti a mano. Oggigiorno non ne fanno più di coperte così belle. Me l’ha regalata per il nostro fidanzamento.”
“Tienila bene da conto, che chissà quanto vale.”
Più sentivo queste parole, più mi ingelosivo e mi agitavo. Neanche fosse stato il tesoro di Alì Babà. Continuavano a tessere le lodi di quella coperta che, per quanto fosse bella, non aveva neppure la metà dei miei anni e del mio valore.
“Lasciamela toccare. Oh, come è delicata e fine anche al tatto.”
“Le ho fatto fare un lavaggio a parte, con l’acqua tiepida e l’ammorbidente. Non volevo che si rovinasse. … ”
Non ne potevo più di sentire tutte quelle sciocchezze. Cominciai a dibattermi per liberarmi da quelle odiose mollette. Lo stendino con tutto quanto vi era appeso venne preso dalla mia stessa agitazione. Alcuni calzini volarono per terra. Il vento, che entra in tutte le cose e ne penetra e comprende gli umori, cominciò ad assecondare i miei fremiti con una serie di raffiche inaspettate. Mentre le due signore si davano un gran da fare per raccogliere ciò che cadeva e limitare o prevenire altri danni, io mi liberai della prima molletta e comincia a percuotere ripetutamente, con la mia coda libera, la vicina coperta della nonna. Con due o tre colpi ben assestati le feci spostare il baricentro finché non cominciò a scivolare, lentamente ma inesorabilmente, nonostante gli sforzi della signora Maria. Strettamente avvinghiate, e con mia grande soddisfazione, si accasciarono entrambe sul pavimento della terrazza, l’una non più immacolata, l’altra dolorante e consapevole di dover rifare qualche bucato.
Infine mi liberai dell’altra molletta, spiccai il volo e mi sollevai ad un’altezza da cui potevo avere una buona visione d’insieme dell’accaduto. Un bello spettacolo.
Dal basso gli sguardi delle due donne osservavano i miei movimenti con preoccupazione, più per la mia traiettoria che per la mia sorte. Mi scelsi la via di fuga più defilata, e planai lentamente nella direzione scelta. Ero tentato di fuggire altrove per sempre.
Qualcuno suonò al campanello dell’abitazione della signora Maria.
“Chi è?”
“Sono la signora del piano di sotto. Ho trovato un tappetino sul mio terrazzo. Pensavo che potesse essere suo.”
La signora Maria vinse la sua iniziale diffidenza ed aprì la porta.
“Si era impigliato tra le mie piante. Ho pensato che fosse caduto dal suo terrazzo. Sa, lo so come sono i bambini piccoli. Appena ti distrai un attimo … ”
La signora Maria era incredula. “Sì, è proprio il mio. Ma come ha fatto a finire da lei? Pensi che mi è caduto dalla terrazza condominiale!”
“Comunque complimenti. E’ davvero un bel tappetino. Sembra antico, probabilmente un persiano, ed ha un disegno bellissimo.”
“Ha ragione, sa. Fino all’altro giorno era talmente sporco che a malapena si distingueva qualcosa. Pensi che mia nonna lo teneva nel bagnetto di servizio.”
“Davvero?!”
“In effetti starebbe molto meglio in salone o nell’ingresso. Ma a proposito, perché non entra un attimo? Magari posso offrirle qualcosa?”
Le due donne passarono una buona mezz’ora a chiacchierare; non poco, se si pensa che si conoscevano a malapena di vista. E buona parte di questo tempo la trascorsero a studiare