Alessandro Manzoni

I promessi sposi


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non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione.

      — Il fatto è questo, — cominciava a gridare il conte Attilio.

      — Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, — rispose don Rodrigo. — Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta...

      — Ben date, ben applicate, — gridò il conte Attilio. — Fu una vera ispirazione.

      — Del demonio, — soggiunse il podestà. — Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è azione da cavaliere.

      — Sì, signore, da cavaliere, — gridò il conte: — e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d’un mascalzone.

      — Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l’ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato.

      — Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo...

      — Risponda un poco a questo sillogismo.

      — Niente, niente, niente.

      — Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; atqui il messo de quo era senz’arme; ergo...

      — Piano, piano, signor podestà.

      — Che piano?

      — Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per questo, si possono dar certi casi... ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditorio; ma appoggiar quattro bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. — E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella , per aiutarmi a persuader questo signore?

      — Io... — rispose confusetto il dottore: — io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice... qui il padre...

      — È vero; — disse don Rodrigo: — ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti?

      — Ammutolisco, — disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione.

      — Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre, — disse don Rodrigo, con una serietà mezzo canzonatoria.

      — Ho già fatte le mie scuse, col dire che non me n’intendo, — rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore.

      — Scuse magre: — gridarono i due cugini: — vogliamo la sentenza.

      — Quand’è così, — riprese il frate, — il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate.

      I commensali si guardarono l’un con l’altro maravigliati.

      — Oh questa è grossa! — disse il conte Attilio. — Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo.

      — Lui? — disse don Rodrigo: — me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica se non ha fatta la sua carovana ?

      In vece di rispondere a quest’amorevole domanda, il padre disse una parolina in segreto a sé medesimo: «queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto».

      — Sarà, — disse il cugino: — ma il padre... come si chiama il padre?

      — Padre Cristoforo, — rispose più d’uno.

      — Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue massime, lei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile.

      — Animo, dottore, — scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, — animo, a voi, che, per dar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione in questo al padre Cristoforo.

      — In verità, — rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e rivolgendosi al padre, — in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.

      Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica, e sempre nuova ? Niente: e così fece il nostro frate.

      Ma don Rodrigo, per voler troncare quella questione, ne venne

      a suscitare un’altra. — A proposito, — disse, — ho sentito che a Milano correvan voci d’accomodamento.

      Il lettore sa che in quell’anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova , del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga , che non aveva lasciata prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers , suo parente più prossimo. Luigi XIII , ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel principe, suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d’Olivares , comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell’impero, così le due parti s’adoperavano, con pratiche, con istanze, con minacce, presso l’imperator Ferdinando II , la prima perché accordasse l’investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato.

      — Non son lontano dal credere, — disse il conte Attilio, — che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi...

      — Non creda, signor conte, non creda, — interruppe il podestà. — Io, in questo cantuccio , posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po’ di bene, e per esser figliuolo d’un creato , del conte duca, è informato d’ogni cosa...

      — Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben altri personaggi; e so di buon luogo che il papa , interessatissimo, com’è, per la pace, ha fatto proposizioni...

      — Così dev’essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha la sua politica, e...

      — E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l’imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? Le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai , o come lo chiamano,