in una compagnia fidata, chiamò subito: — Perpetua! Perpetua! —, avviandosi pure verso il salotto, dove questa doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede la serva di don Abbondio: serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta , rimanendo celibe , per aver rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche.
— Vengo, — rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero.
— Misericordia! cos’ha, signor padrone?
— Niente, niente, — rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone.
— Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto com’è? Qualche gran caso è avvenuto.
— Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o e niente, o è cosa che non posso dire.
— Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?...
— Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino.
— E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! — disse Perpetua, empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.
— Date qui, date qui, — disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
— Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? — disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.
— Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!
— La vita!
— La vita.
— Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...
— Brava! come quando...
Perpetua s’avvide d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando subito il tono, signor padrone, — disse, con voce commossa e da commuovere, io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo...
Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: — per amor del cielo!
— Delle sue! — esclamò Perpetua. — Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!
— Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?
— Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone?
— Oh vedete, — disse don Abbondio, con voce stizzosa: — vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levarnela.
— Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...
— Ma poi, sentiamo.
— Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant’uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...
— Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un pover’uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi! l’arcivescovo me la leverebbe?
— Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a...
— Volete tacere?
— Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...
— Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate?
— Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.
— Ci penserò io, — rispose, brontolando, don Abbondio: sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare. — E s’alzò continuando: non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch’io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me.
— Mandi almen giù quest’altro gocciolo, — disse Perpetua, mescendo. — Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.
— Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro.
Così dicendo, prese il lume, e, brontolando sempre: — una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? — e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne: — per amor del cielo! — e disparve.
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Capitolo II
Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! Non si lasci scappar parola... altrimenti... ehm! — aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ ehm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze ; «e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose». Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. «Vedremo,» diceva tra sé: «egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso,