Francesco Domenico Guerrazzi

L'assedio di Firenze


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nostro paese Cristo venduto, in lui Giuda venditore. Sconsigliati! Sconsigliati! prezzo del sangue è Perugia; nè sempre sarete in tempo con i traditori come lo foste con Baldaccio dell'Anguillara e con Pagolo Vitelli. Pur troppo le funeste guerre fraterne hanno spento tra noi la militare virtù come in Roma l'accrebbero: perocchè in Roma le contese cittadine terminassero con una legge, in Fiorenza poi con le uccisioni e gli esilii conchiudessero; in Roma il popolo godere dei supremi onori insieme con i grandi desiderava, in Fiorenza per esser solo nel reggimento combatteva: prevalso in popolo tra noi, i grandi disparvero e con essi i sensi generosi, la ferocia nelle armi; attesero i cittadini ai guadagni, diventarono ricchi, la roba acquistata disegnando godere, di fare coi petti riparo alla patria abborrirono, le sorti loro commisero ad anime e a braccia vendute; quindi milizie mercenarie vilissime, turpitudini di condottieri venali, il vituperio e la rovina d'Italia[18].

      «Pure gli antichi ordinamenti di giustizia tanto non valsero ad abbattere la virtù militare tra noi che a ora ad ora alcuna scintilla limpidissima non prorompesse; e per tacere di più antichi capitani, non furono fiorentini quel maraviglioso Giacomo Tebalduccio e l'altro fulmine di guerra Giovanni dalle Bande Nere, e tuttavia nol sono il Bichi, l'Arsoli e una schiera che aspetta il destro per sorgere più grandi di loro? Qual è lo sciagurato che dubita non accogliere nel suo grembo Fiorenza figli che sappiano morire per lei? Questo fallo, se non ci si rimedia in buon tempo, partorirà amarissimi frutti; avvegnachè, amici miei, chiunque, e ponete mente alle mie parole novissime, chiunque commette la cura della sua libertà a mani straniere merita diventare schiavo. Nè le condizioni nostre di fuori a termine migliore ridotte che quelle dentro; la esitanza nostra ci ha fatti contennendi e sospetti; nemici molti e potenti, amici nessuno. Il papa all'antica libidine di regno aggiunge la nuova ira delle offese ricevute allorquando i giovani le armi, i simulacri della sua famiglia e la statua di lui misero in pezzi nell'Annunziata. L'imperatore, che or dianzi intendeva privare Clemente del potere temporale e convertirlo in vescovo di Roma, minacciato adesso dal Turco, prosperando Lautrec con le armi di Francia nel regno, disperato di stringere lega con qualunque governo italiano, accorto la riforma della libertà delle coscienze in Lamagna essere scala a conseguire le libertà civili, muta all'improvviso consiglio, lo libera di castello, gli spedisce fra Angelio suo confessore a tenerlo bene edificato, gli fa presentare dal Mussettola la chinea bianca e i settemila ducati pel censo del regno di Napoli, se lo rende amico, nè di presente v'ha cosa ch'ei non si mostri presto a operare per confermarlo nella nuova amicizia: noi non volemmo stringere lega con Carlo quando il tempo ci correva propizio, e i più pratici cittadini la persuadevano, ed egli per messer Andrea Doria quasi ce ne richiedeva; ora poi non osiamo dichiararglisi manifesti nemici. Abbiamo i Veneziani alienati da noi allorchè non gli sovvenimmo nel caso del Brunsvicco, il quale, tempestando si calò dalle alpi di Trento con dodicimila fanti e diecimila cavalli; onde presi da sdegno notificarono al nostro ambasciatore Gualterotti sarebbero in pari caso per fare lo stesso a noi: i Vineziani però, come sono prudenti, non vorranno trarre dagli altrui falli argomento per fallire; non pertanto l'ira vince talvolta la ragione, sicchè desideriamo vedere anche con danno proprio patire colui che stette indifferente ai nostri mali. In chi dunque fidiamo? La fede di Francia, incerta sempre, incertissima adesso. Meco medesimo considerando sovente come in ogni tempo gl'Italiani si mostrassero e tuttavia si mostrino corrivi a commettere ogni loro speranza nei Francesi e dall'altra parte quanti eglino abbiano peccati da scontare verso di noi fino dal regno di Pipino, con espresse parole scrissi: «I Francesi, quando non ti possano far bene, tel promettono; quando te ne possono fare, lo fanno con difficoltà o non mai[19].» Francesco I s'intende di stato anche meno di Luigi XII, al ministro del quale io ebbi ardimento significarlo alla recisa in faccia[20]; di rado lo muove la religione; più presto che a re non conviene, il talento; però battuto dalla fortuna adesso va più cauto alle offese e molto si lascia governare da madama sua madre, nè intelletto da concepire un disegno nè costanza gli compartirono i cieli da metterlo in esecuzione, e sopratutto stanno i suoi figliuoli in potestà di Carlo V: ora pensate s'egli possa amare o voglia la libertà vostra più di quella dell'erede del suo regno. Noi siamo soli. E che perciò? Dobbiamo noi forse piangere come perduta la nostra città? Non è mai lecito disperare della salute della patria, insegnava Focione, nè l'hanno per anche ridotta a tale da rendere ogni provvedimento tardo. Il Capponi mal si regge nel posto che non avrebbe mai dovuto tenere; forse ne scenderà per salire al patibolo; e gli starebbe bene, come colui che all'ambizione smodata accoppia ingegno per esitanza imbecille e codardia manifesta, la quale lo induce ad adombrare la natía virtù con partiti paurosi, che egli e i suoi chiamano temperati e prudenti, riprendendo quasi esorbitanze i consigli capaci di mettere con molta gloria a pericolo la vita e la sostanza dei cittadini, e perciò anche le sue; astiosamente avverso a chiunque si conosce superiore per intelletto e per animo; insomma della libertà di un popolo che voglia risorgere davvero, vergogna ad un punto flagello. Voi, giovani, nei quali tutta speranza di salute riposa, restringetevi insieme; voi, Zanobi e Luigi, consigliate i nobili; voi, Dante da Castiglione (e il membruto della lunga barba rossa, sentendosi rammentare, si scosse come destriero al suono della battaglia), adoperatevi fra i popolani; badate a non lasciarvi sedurre dalle antiche rinomanze; a' casi nuovi convengono uomini nuovi: se anima vive che valga a salvare Fiorenza, ella è certamente quella di Francesco Carducci; a me giova indicarvelo come il nostro palladio: molto mi conforta il pensiero che al nostro scampo basta non perdere, mentre ai nemici bisogna vincere; e poi noi combattiamo in casa e per noi, il nemico sopra terra dove ogni cosa gli si volgerà infesta, e con armi infedeli, mercenarie tutte e con intendimenti diversi, dacchè i capitani del papa non possono accogliere il concetto istesso dei capitani di Carlo: confido non poco nella fortuna, nella provvidenza di Dio moltissimo, il quale non soffrirà la rovina della innocente mia patria. E se preghiera alcuna trova grazia al tuo cospetto Signore, ti raccomando questo suolo, che mi raccolse infante e già mi apre il seno pietoso alla quiete eterna, con tutta l'anima prossima a comparirti davanti; te lo raccomando anche prima dei figli, anche prima della medesima anima mia!»

      Dalla interna commozione agitato, qui si rimase il Machiavello; ma in quel modo medesimo che, cessati i remiganti, la navicella continua nell'incominciato cammino, così, perchè tacessero i labbri, dalla fronte, dagli occhi, da tutta la faccia non ispirava meno amore di patria e di libertà.

      Come dimentico della malattia che lo aggrava, si solleva alquanto sul fianco e stende la destra verso una tazza colma di tisana a capo del letto.

      Quando la morte si apparecchia a vincere con la infermità la vita, raccoglie penosamente nel corpo del moribondo la somma di ogni male sofferto, e le carni, i nervi e l'ossa corrode con infiniti dolori diversi: la morte giunge amara all'uomo; e se fosse stato un bene, come Saffo cantava, Dio l'avrebbe creata per sè; però il Machiavello appena ebbe mosso la destra, la ritornava nella prima positura, chè intorno alla scapula e giù nei muscoli gli corse uno spasimo acuto come quando fu posto alla prova della corda; la guancia sinistra si contrasse di forza verso l'occhio, seco traendo le labbra in atto di angoscia; ma si ricompose all'improvviso e sorridendo riprese: «Dante, porgetemi, prego, cotesta tazza.»

      Fra' Benedetto da Foiano, sottoposto un braccio ai guanciali, solleva amorevolmente il corpo del giacente. Dante gli appressa alle labbra la tazza; e mentre egli beve, suo malgrado una lagrima gli prorompe dagli occhi e giù scendendo si mesce alla bevanda, sicchè Nicolò lo guarda fisso e dopo alcuni istanti favella:

      «Nella estremità a cui mi trovo condotto, nissun liquore può meglio confortarmi le viscere, Dante, della vostra pietà: ve ne renda Iddio quel rimerito che a me non è dato; ben aveva mestiero di questa consolazione l'anima mia, prima di volgersi a considerare la ingratitudine umana. Gran mercè, Dante, gran mercè; voi mi avete apportato un bene maggiore di quello che potete immaginare: che voi mi teneste in pregio, sperava; che mi portaste affetto, forte temeva: ora poi saluterò la morte come amica, dacchè sopra la soglia del sepolcro mi accorga non avere perduto la speranza e trovato l'amore.»

      Tacque, e seguì un silenzio tanto profondo che ben si udiva lo zufolio sottilissimo dell'insetto aleggiante intorno ai moribondi; dopo lunga pausa, il Machiavello, crollando il capo, continua:

      «Il mio cuore non conobbe altro palpito che per la patria: queste braccia lacerò il carnefice per amore della patria...; che importa? Non sono ancora sceso nel sepolcro, e gli uomini mi calpestano il cuore come una pietra; i nervi e l'ossa dei bracci spasimano di cocentissima angoscia, e gli uomini