Francesco Domenico Guerrazzi

L'assedio di Firenze


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due becchi porta», come un giorno cantò l'Alamanni; la quale da uno de' suoi becchi versava vino rosso, dall'altro vino bianco, e giù intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicchè l'Alamanni a cotesto spettacolo ebbe a dire: — Ecco l'aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidità[94]. —

      Ahi! popolo, io che ho viscere di umanità e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l'orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni. Dalle finestre, dai terrazzi egli ordina ti sieno gittati pani e vivande. — Potessi cibarti per un anno e approvvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l'assedio, saresti meno infelice; ma domani l'insolito cibo ti recherà molestia, forse anche la morte. — Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travágliati da mattina a sera, e l'opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti cuopre e il sole che ti scalda... o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporvi dentro le tue ossa, perchè non le rodano i cani, ed anco perchè morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia. Bada, non ti esca di mente che ora ingombri la piazza meno per solazzarti che per divertire i tuoi principi. Rallégrati, ma bada di non ispaventarli; però che, vedi, nella tua esultanza empi talora l'aere con tale un grido di frenesia che agghiaccia il cuore al tiranno, ond'egli battendosi la fronte accorre tutto pallido al balcone per vedere se tu balli o se meni strage delle sue lance spezzate. Anche le menadi con in pugno le fiaccole accese, trascorrendo pei boschi sacri, mettevano spavento; però furono distrutte, i misteri loro aboliti. Non obliare uomini armati, delatori ed armi recingere i luoghi dove i tuoi principi ti chiamano a festa; nella medesima guisa che la fama racconta, ai capi delle mense dei re di Babilonia stessero sagittarii con archi tesi a trafiggere chiunque osasse di levare la faccia. Infatti Antonio da Leva, di tutt'arme vestito, siede in luogo sublime per farti al bisogno fulminare da venti bombarde e da ottomila archibusieri pronti ad un moto della sua mano. Ahi! popolo, quel tuo riso in verità mi angustia il cuore; e' mi ha l'aria dello sghignazzare convulso dell'uomo il quale, posata la testa sul ceppo, aspetta la mannaia che cada.

      In ristoro di ciò il re dell'armi chiamato Borgogna getta pugni di monete con l'effigie dell'imperatore da un lato e le colonne col motto plus ultra dall'altro. — Prendi cotesta moneta; — domani, o popolo, quando il tuo padrone te ne chiederà due, tu potrai in questa maniera, per un giorno almeno, allenire il tuo danno[95].

      Intanto Carlo, si affretta con presti passi alle porte del tempio; la mal'aria ch'esce dai sacerdoti gli aveva cacciata addosso la quartana della superstizione; sperava dissiperebbe il cielo aperto quel fascino: il papa temeva ed aborriva; gli avrebbe in cuor suo fatto mozzare la testa e non osava sostenerne lo sguardo; le prime idee di venerazione al capo della Chiesa, al padre dei fedeli, al vicario di Cristo gli ritornavano alla mente angustiandolo: così gli sorgevano nell'anima altissimi concetti, i quali poi, non sapendo egli svilupparsi dalla caligine dell'antica ignoranza, gl'impedirono di riuscire, come altramente sarebbe stato l'uomo più grande del suo secolo.

      Il subdolo sacerdote presentì le ire di quello spirito orgoglioso e gli aveva posto opportuna avvertenza. Finchè ambedue stavano agli altari, poteva dubitarsi l'imperatore avesse reso omaggio al vicario di Cristo, non già a Clemente dei Medici. Fuori degli altari gli ossequii sarebbero stati, più che al vicario di Cristo, resi a Clemente. Però ell'era cosa disagevole ottenerli; si provvide all'inganno. Varcate di pochi passi le porte del tempio di San Petronio, uno scudiere armato raffrena per le redini un bianco cavallo, inquieto, ardente, dovizioso di gualdrappa, di frontale e di ogni altro arnese consueto; cotesta non pareva cavalcatura del pontefice, solito a procedere in lettiga, o montato sopra mula o palafreni. Carlo, di aria impaziente e di luce, desideroso di rinfrescarsi il sangue nel bello aspetto del cielo sereno, perocchè un cielo sereno d'Italia in qualunque stagione sia di per sè stesso una festa e infonda tale conforto nel cuore che indarno speri da gioie artificiali. Carlo stese pronte le mani per acconciare alquanto, siccome avviene ai cavalieri, la gualdrappa e le staffe, — e quindi balzare in arcione.

      Ma lo fermava pel braccio il pontefice e in suono di umiltà gli diceva:

      «Non farlo, figliuolo mio e imperatore invitto; mi basta la umanità che fin qui mi hai dimostrato...»

      Carlo lo guardava attonito: — all'improvviso non comprendeva; — poi si accorse essere cotesto il cavallo del pontefice, ed egli avere per errore umiliata la dignità imperiale fino a fare mostra di volergli tenere la staffa; vinto da ineffabile angoscia, aperse le labbra tremanti e favellò:

      «Veramente alla persona vostra...»

      «La nostra persona», interruppe il pontefice, «di per sè stessa è nulla, ma poichè ella rappresenta il Creatore di tutte cose, forza ella è che le creature ci si curvino dinanzi...» E con giovanile leggerezza salito sul destriero salutava della mano lo imperatore e da lui con lo immenso suo seguito si dipartiva.

      I partigiani di Roma, i quali videro da lontano quell'atto, esultarono, immaginando rinnovarsi i bei tempi di papa Gregorio e di papa Innocenzo. Tanto vero è che spesse volte l'odio e l'amore, più che d'altro, dipendono dal modo di guardare da lontano o da presso.

      Carlo punge il suo nobile corsiero; la corona imperiale sì lo molesta che talora gli prorompono le lagrime dagli occhi. Una mano di Bolognesi, Angelo Ranunzio, Giulio Cesarino, il marchese dell'Anguillara, il Rangone, il Cibo ed altri infiniti portano bandiera e gonfaloni con le chiavi, con l'aquila, rossi, bianchi, gialli e neri, e gli sventolano al cospetto dell'imperatore. Alla fantasia accesa di Carlo sembravano un turbine di spettri de' suoi antenati che gli s'avvolgesse intorno alla testa, e l'onta fatta alla memoria loro lamentasse, la viltà sua gli garrisse. Il trambusto delle voci e dei gridi, il frastuono degli istrumenti ed il suo nome ricorrente tra mezzo, urlato in tutti i suoni, lo atterrivano, come se l'inferno si fosse scatenato per dirgli vituperio.

      Allora aborrì i campi aperti, il sole, la gloria terrena, e sospirò un asilo tranquillo, comunque ignorato, — allora desiderò la cocolla di frate scambiare col suo manto imperiale, e vide di passo in passo farsi più vicino alla sua imperiale magione, coll'anelito del marinaro il quale dopo un viaggio pieno di tempeste e di pericoli saluta la riva; — vi pose appena il piede, che, senza aspettare la solita accompagnatura, ogni qualunque cerimonia mettendo da parte, salì veloce e, licenziati gli altri, si chiuse nella sala privata insieme coll'astrologo Agrippa. Qui, libero da ogni sguardo molesto, spogliò le vesti imperiali e le sacerdotali di cui lo avevano avviluppato, e tempestando le gittò in questo e in quel lato, e...

      «Al corpo di Dio!» diceva in suono di lamento, «come la camicia di Nesso, costoro hanno stillato il sangue nelle mie vene.»

      Quindi le mani cacciando alla corona, se la tolse impetuosamente e la scaraventò[96] di contro alla parete; molti capelli essendosi attorti per le punte e pel cerchio, egli se gli strappò con acuto dolore, e prorompendo in un urlo disperato, ambe le mani portò di nuovo alla testa, esclamando:

      «Ah! mi ha portato via il cranio e il cervello. — Agrippa, vieni qua, guarda diligentemente; — per certo avvelenarono la corona...»

      Agrippa guardò, e vide che la corona gravissima gli aveva intorno alla fronte inciso un solco profondo in mezzo, di color di piombo, digradante ai lati in vermiglio acceso.

      «Stia pur lieta la Maestà Vostra; io l'assicuro che non è veleno...»

      «Per santo Iacopo di Gallizia!» esclama l'imperatore sentendo forte bussare alle porte, «chi è che osa sturbarmi?»

      «Maestà!» con tal una voce che, più che ad altro, si assomigliava per la paura al belare della pecora, rispose il sire di Croy, novellamente promosso al grado di conte; «il banchetto è apprestato; — non manca che la Sacra Maestà vostra per dare acqua alle mani...»

      «Aspettino! io