Anton Giulio Barrili

La montanara


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      —Perchè…. Non saprei come dirglielo, ma sento così. Ci sono i momenti, nella vita, che l'anima non si contenta della sua prigione, e vorrebbe spaziare in più libera cerchia; dei momenti che il pensiero va lontano, di là dai monti, cercando.

      —Per trovar che cosa?—domandò Fiordispina.

      —Non so; forse altri monti. Ma questa è colpa del mondo, che è fatto così, non dell'anima nostra, che anela a cose migliori. E poi, signorina, anche ignorando la meta, si cerca, si desidera, si aspira, per un'idea confusa di ciò che sarà, o di ciò che dovrebbe essere un giorno.—

      Fiordispina levò gli occhi, mandando anch'ella uno sguardo, lo sguardo dell'anima, di là dai mari e dai monti; poi disse:

      —C'è una ballata di Goethe, che esprime un sentimento come questo.

       Nel Wilhelm Meister, mi pare.—

      Il conte Gino Malatesti non era così forte di letteratura straniera.

      —Ho piacere d'incontrarmi con un tant'uomo;—diss'egli;—ed ho piacere che Ella possa citarlo così. Ma anche questo è strano, nelle convalli del Cimone; e sia detto senza offendere la dignità di questo bel monte. Dovrà Ella, signorina, vorrà e potrà viverci sempre?—

      La fanciulla rimase un istante sovra pensiero. Non c'era qui nessun autore da citare? Io penso piuttosto che Fiordispina non era pedante, come son troppi, uomini e donne che hanno studiato, e che non condannava la gente a sentire ad ogni tratto un saggio delle sue letture predilette.

      —Non mi risponde nulla?—ripigliò il giovanotto.

      —Che cosa rispondere a questa domanda? Non è in mio potere;—disse Fiordispina.—Sarò io la foglia che vola dove il vento la porta? Sarò io l'umile pianta che muore dove è nata? Certo è che bisogna rassegnarsi. Foglia o tronco, ci governa il destino.

      —È fatalista?

      —No davvero; dico il destino, per modo di dire, ed intendo una volontà superiore. Ma lasciamo la filosofia, per carità;—soggiunse ella, con un gesto di terrore.—Vede, signor conte? I miei conigli scappano. Queste povere bestiuole non hanno meritata una lezione così severa. Del resto, non la intenderebbero neanche. Basta a loro di aspettare ogni giorno la provvidenza mia, come l'aspetteranno a quest'ora le galline e i colombi.

      —Andiamo!—disse Gino.—Se possiamo adoperarci per la felicità di qualcheduno, sulla terra, non dobbiamo farci pregare.

      —Ecco un bel pensiero, signor conte.—

      Così dicendo, la fanciulla dei Guerri si avviò verso l'uscio. Gino la seguì, e richiuse diligentemente la porta, senza farselo dire da lei. Vedrete da questo piccolo particolare che il conte Malatesti non era uno sventato, e che entrava con molta sollecitudine nella gravità dell'ufficio.

      Per quella mattina non più ragionamenti con la fanciulla dei Guerri; fu solamente quello scambio di parole che era necessario nelle piccole vicende, nelle insignificanti peripezìe d'una visita al pollaio e alla colombaia. Poi venne l'ora del pranzo; ed anche a tavola non furono che discorsi vani, o senza importanza, tra i quali il nostro giovanotto se la cavò discretamente, nascondendo il sentimento di tristezza che si era impadronito di lui.

      Che cos'era avvenuto? Esplorare i segreti di un'anima è cosa difficile assai, e meglio varrebbe inventare di sana pianta. Ma le invenzioni non giovano che a patto di essere verisimili. Voi per esempio avrete sentito dire le mille volte che spesso avvenga di esser tristi senza ragione. Ma è proprio vero, questo? E non è a vederci piuttosto un effetto della nostra ignoranza, per difetto d'indagini? In quei momenti di tristezza, chi ben cerchi, c'è sempre il fatto d'uno squilibrio morale tra ciò che siamo e ciò che vorremmo e dovremmo essere. Sia luogo o genere di vita, o sentimento più intimo, se ciò che noi siamo per necessità, o che la nostra stoltezza ci ha condotti ad essere, non corrisponde a quello che intravvediamo di meglio, è naturale che la tristezza ci offuschi lo spirito. Ma se fossimo quel che vogliamo, o dobbiamo, saremmo poi più felici? Altro errore, pur troppo, altro inganno di prospettiva, poichè non ci contentiamo mai di quello che abbiamo, e desideriamo sempre ciò che è da raggiungere ancora. Così l'uomo è triste, e di simili tristezze è tessuto il drappo funebre della nostra esistenza.

      Il conte Gino aveva poi, per argomento di tristezza, tutto quello che non diceva a sè stesso. Vi è occorso mai di ricevere una lettera e di lasciarla per qualche tempo chiusa sul tavolino, sperando che qualche noia più grande, magari una vera disgrazia, vi levi l'incomodo di leggere quello scritto, in cui fiutate il rimprovero, o una seccatura a cui non potrete sottrarvi senza venir meno a tutte le norme dell'onestà? Con pari sospensione d'animo viveva il conte Gino, a cui una parte della sua vita avrebbe potuto rimproverare quella avventura sui monti, quella volata al sereno, quella ebbrezza (chiamiamola pure così) quella ebbrezza di ossigeno. Ah, se gli fosse riescito di cancellare!… Ma che cosa? Dio buono! Era qui il nodo della quistione, il punto che ricusava di guardare, la cosa, che non osava dire a sè stesso.

      Capitolo V.

      Il commissario e l'applicato.

      Ritornato quella sera a Querciola, il conte Gino Malatesti indovinò la ragione dei discorsi che il signor Aminta aveva fatti sottovoce al Mandelli. E ancora indovinò perchè il signor Francesco Guerri e suo figlio, ritiratisi a colloquio d'affari, lo avessero lasciato solo, fino all'ora del pranzo, in quella dolce libertà che gli aveva permesso di scendere nella stufa e di aver poi quella lunga conversazione con la bella Fiordispina.

      La sua camera, in casa Mandelli, era completamente trasformata. Gino incominciò a vedere un letto nuovo, di ferro, col suo tappeto da piedi, il suo comodino accanto, il suo candeliere e perfino il grazioso arnese di velluto su cui posar l'orologio. Più in là era un cassettone, e vicino a questo, in un angolo, l'attaccapanni. Di rincontro alla finestra era una piccola scrivania, con carta, penne, calamaio, ed anche dei libri. Guardò quei volumi, e riconobbe la Divina Commedia, la Bibbia, un compendio di Storia romana, e finalmente un dizionario storico-geografico del Ducato di Modena.

      Tutta quella roba era stata caricata, portata e messa a posto nella giornata. Parecchie persone, di certo, avevano lavorato all'impresa, sotto la scorta di Aminta, che infatti, appena finito il pranzo, era sparito da casa, non ritornando che verso sera, quando per il conte Gino era venuta l'ora di ritornare a Querciola. Ottimo fratello Aminta! Ma se egli aveva lavorato con tanta sollecitudine lassù, non mancavano traccie del pensiero di Fiordispina. I libri, sicuramente, li aveva scelti lei. Quel copertoio trapunto, che si vedeva disteso sul letto, quel grazioso arnese per deporvi l'orologio, quel piè di lampada ricamato che stava sulla scrivania, non erano forse opere sue? Aggiungete che a pian terreno, nella stalla del Mandelli, dov'era stata rinnovata la paglia, riposava il cavallo su cui Gino Malatesti aveva già fatto tre corse. Un famiglio dei Guerri, destinato al governo del cavallo, doveva rimanere a Querciola, come servitore di Gino.

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