Edmondo De Amicis

Alle porte d'Italia


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dalla striscia luccicante del Po, e la rocca di Cavour, che s'alza solitaria nel piano come un frammento colossale d'asteroide precipitato dal cielo, e le cime delle Alpi inargentate; questo spettacolo immenso e quieto, in cui si sente la voce sonora del Lemina che parla delle glorie morte, mi tiene inchiodato un'ora con la bocca aperta. E se qualche volta mi piglia un senso di tristezza a veder lì a pochi passi quella gola spalancata della valle di Fenestrelle, che ci ha vomitato addosso tanto ferro e tante sventure, allora mi rivolgo dalla parte di Torino, dove brilla la speranza d'un avvenire migliore del passato e del presente, e il mio cuore si riconforta.

      ..... È sonata la mezzanotte. Sento che passa la ronda per la strada e riconosco al chiarore della luna il profilo rodomontesco di quel lanternone del Rivière. Siccome abbiamo leticato ieri sopra la quistione di Casale, è capace, vedendo il lume acceso, di venirmi ad aggranfiare la lettera. Caro mio, non voglio maschere di ferro. Ti mando un saluto dal cuore e chiudo la lettera in furia.

      Il tuo

       ***

       Indice

      Pinerolo, agosto 1883.

      Era un pezzo che desideravo di visitare quel vecchio palazzo, il quale mi mostra tutti i giorni i suoi merli rossi di là dai pini e dai cedri del giardino della bella marchesa Durazzo. Uno strano edifizio, veramente, d'una forma che non riuscivo da nessuna parte ad afferrar intera con lo sguardo; coronato di certi merli bizzarri da castello di palcoscenico; carico di secoli, e pure colorito di fresco, e triste a vedersi come un cadavere imbellettato: e poi, nascosto là in un canto solitario di Pinerolo, in mezzo a casette misere e a vicoli in salita, irti di sassi enormi e corsi da larghi rigagnoli sonori. Non ci avevo mai visto intorno che ragazzi scalzi e processioni di pulcini, e qualche vecchio sonnacchioso, accucciato davanti a una porta, il quale non sapeva certamente chi avesse abitato una volta tra quei muri, più che non lo sapessero l'erbe che gli verdeggiavan tra i piedi. — Che diavolo ci ha da esser là dentro? — mi domandavo. Una mattina, passando sotto quelle finestre misteriose, m'era parso di sentire un bisbiglio di voci lamentevoli, come una preghiera di anime in pena, e una sera, affacciandomi al terrazzo d'una villa vicina, avevo visto giù nel giardino oscuro del palazzo una bella monaca che fuggiva come uno spettro in mezzo alle piante: — l'immagine d'un quadretto del Boccaccio. Ce n'era più del bisogno per eccitare la curiosità di qualunque più ostinato odiatore di rovine illustri.

       * * *

      Sarebbe stato ingiustizia, peraltro, se quella curiosità non fosse nata anche in parte da un sentimento di simpatia per i Principi d'Acaja. Dico simpatia, non entusiasmo. Grandi non furono, nè forse potevano essere. La parte principale, in quel fortunato lavorìo diplomatico e guerresco della casa di Savoia, toccava naturalmente ai Conti, loro signori, più forti d'armi e piantati in domini assai più sicuri che non le terre dei principi. Tolto anche il conte Verde e il conte Rosso, che vissero al tempo loro, sarebbe bastata ad oscurar gli Acaja la gloria di Amedeo il Grande che li precedette e la fama d'Amedeo VIII che li seguì. Ma non furono indegni d'ammirazione. Accampati sopra un territorio di dubbie frontiere, circondato da Comuni turbolenti e da Signori il cui unico pensiero era la conquista; posti in una condizione, rispetto ai Conti savoiardi, la quale, se li assicurava d'un valido sostegno nei grandi cimenti, vincolava però in mille modi la loro libertà politica; costretti sempre a destreggiarsi fra nemici spesso più potenti di loro, con alleanze ed accordi continuamente rotti, ripresi, falsati e violati; condannati a combattere quasi senza riposo coi Marchesi di Saluzzo e di Monferrato, cogli Angioini e coi Visconti, in un paese impoverito dalla sfrenatezza della soldataglia mercenaria; inceppati nel governo dalle mille difficoltà e dai mille disordini che nascevan dalla mancanza d'un Codice generale di leggi, e dall'imperfezione degli Statuti di ciascun Comune; essi riuscirono non di meno, a furia di sagacia e di costanza, parte coi matrimoni accorti, parte con gli ardimenti opportuni, e molto col valor personale, gli uni ad accrescere, gli altri a consolidare la propria potenza, e a preparar largamente la via alle conquiste avvenire della casa sabauda; ci riuscirono, — questa è la loro gloria maggiore, — conservando quanta fama di lealtà era possibile meritare allora, tra quei nemici: non macchiandosi di efferatezze famose in un tempo in cui pochi Principi avevan le mani nette di sangue; non opprimendo smodatamente i loro sudditi, liberando anzi i Comuni dalla maggior parte degli incagli dei diritti feudali; governando anche fra i torbidi e le guerre in maniera da legare a poco a poco al loro nome, nella mente del popolo devoto non per timore, una certa idea di magnanimità e di giustizia, che era forza nei pericoli e conforto nella miseria. Eccettuato Giacomo, non malvagio, ma debole, e imprudente e pauroso a vicenda davanti ad Amedeo VI, gli altri, educati tutti nella Corte di Savoia, e compagni d'armi dei Conti nei loro primi anni, lasciarono un nome illustre ed amato: Filippo fu politico sapiente e capitano ardito; Amedeo non meno saggio principe che soldato valoroso; Ludovico, gentile d'animo, non inetto alla guerra, protettore e fautore degli studi, quanto era concesso al tempo suo. E ci destano anche un sentimento particolare di simpatia e di curiosità per il fatto di essere passati così, quasi perduti nella gloria dei loro parenti, quattro soli nel corso di più d'un secolo, in un'età tanto remota, in una terra presso che barbara allora appetto a molte altre d'Italia, non celebrati da scrittori nè cantati da poeti, non lasciando di sè che pochi documenti scritti in rozzo latino, e nessun vivo ricordo personale, e nemmeno le pietre e la polvere delle loro tombe; oltre a non so che di strano e di romanzesco che aggiunge al nome loro quel titolo d'un principato lontano, non posseduto mai e ambito sempre, che brillò per cent'anni nei loro sogni come la promessa allettatrice d'un paese fatato.

       * * *

      Fu quindi una festa per tutta la comitiva quando si vide davanti alla porta spalancata del palazzo, pronto a riceverci, il cortese e còlto canonico Chiabrandi, direttore dell'Ospizio dei Catecumeni. Poichè è da sapersi che il palazzo degli Acaja, dopo essere stato un pezzo proprietà privata, e poi ospedale, serve ora di ricovero e di scuola ai giovani valdesi delle valli vicine, maschi e femmine, che vogliono convertirsi al cattolicismo... o passare un inverno al coperto.

      Ma, ahimè! appena si fu nel cortile, si provò un amaro disinganno.

      Nessuna parola può dare un'idea della devastazione, che, sotto il nome di restauro, fu fatta di quella povera casa. Lo sciupìo è tale che desta per primo sentimento il desiderio di vedersi davanti tutti coloro che fecero o lasciaron fare, ci fosse anche in mezzo qualche Duca impennacchiato, per dare a tutti quanti, in nome della storia, dell'arte, della poesia e della patria, una di quelle lavate di capo che fanno perder la via di tornare a casa. Il palazzo, fondato nel 1318, ha sei secoli, e può dimostrar benissimo sei anni. Qui fu distrutto, là rifatto; parti nuove vennero aggiunte, con imitazione infelice delle antiche; tutti i muri dipinti d'un color rosso arrabbiato di pomodoro, coi mattoni segnati a contorno bianco, come i piccoli castelli dei giardini di cattivo gusto; dentro, tutto rotto e sformato per fare spazio alle nuove scale; le logge alte, tappate; le sale, tramezzate; le pareti ch'eran dipinte, intonacate; la torre, che si alzava d'un buon tratto sopra i tetti, tagliata via; una rovina senza nome. Le ombre degli spodestati Marchesi subalpini ci debbono venire a ridere una volta al mese. Il palazzo ha press'a poco la forma d'un bidente rettilineo con l'apertura volta verso il Monviso, un piccolo cortile nel mezzo, un piccolo giardino davanti. I tre corpi dell'edifizio son disuguali d'altezza. L'unica cosa che si riconosca d'antico, a primo aspetto, è nel corpo più basso: uno stretto porticato a tre archi schiacciati, il quale sostiene una loggetta, sul cui parapetto s'alzano delle colonnine leggere che sorreggono un tetto a larga gronda, congiunte fra loro da grandi persiane claustrali. Ma chi può dire quale fosse la forma e l'ampiezza del palazzo nel secolo decimoquarto? Per quanto si sappia che vivevano pigiati, ed anco ammesso che facesse parte del palazzo un piccolo edifizio che gli si alza accanto, le cui finestre conservano il disegno e le incorniciature del tempo, è difficile credere che tutta la famiglia dei Principi, e gli ufficiali, e i servi, e gli ospiti principeschi che eran frequenti, vi capissero. Non vi si potevan rigirare. Un'angusta stanza sotterranea che si apre sulla strada e che pare fosse una scuderia, non conteneva certo tutti i cavalli della corte. Ci dovevano essere intorno altri edifizi. Un grosso muro