all'orribile riverbero delle fiamme una donna scapigliata, e odono le sue strida. I superstiziosi servi raccapricciarono, riputandola una fata malefica, od una strega attizzatrice del fuoco. Ma Berardo la riconobbe, e balzando tra fumiganti legnami corse a lei. — «Che fai tu qui? (gridò la povera madre) che fai tu qui? perchè non corri a salvare la tua figliuola?» — E narrò piangendo l'avvenuto.
Rafaella era stata portata semiviva nella rocca di Mozzatorre in Val di Vrusta, dove ne prendevano cura due selvagge ed odiose creature, il castellano Berto e sua moglie, che avevano avuto ordine dal padrone che trovavasi in Saluzzo di custodirla sotto buona guardia.
Rafaella era battuta da perigliosa febbre. I pochi detti che uscianle dalle arse fauci dirigeansi alla madre, or chiedendole aiuto, or promettendole di soffrir tutto con pazienza, or pregandola di non piangere. Lo spettacolo dell'innocenza infelice sarebbe paruto venerando allo stesso Villigiso.
Come la fanciulla ebbe ricuperati i sensi e udì che essa trovavasi nel castello del nemico capitale di sua famiglia, fu presa da spavento. Guardò uno de' finestroni della sua camera, e fu tentata di balzare da quello e precipitarsi; ma ne la rattenne la sua pietà verso i parenti. Una smania irresistibile di rivederli premeala sì forte, che lusingavala, quasi presentimento ispirato dal Cielo. Ma se questo presentimento la tradisse? Oltre che lo stato di debolezza, in cui giacea, la rendeva proclive ad accorre immaginazioni di spaventi, tutto ciò che Rafaella avea veduto di Mozzatorre, ponti, mura, fosse, cortili, scale, camere, tutto avea impresso quel carattere d'antico decadimento e di mal augurio, a cui facilmente si congiungono le idee più lugubri e più tetre! Le circostanze, la rapidità, l'agevolezza, con cui era stata rapita, non le sembravano proprie di vicende puramente umane. Il contrasto fra la nerezza d'animo di Villigiso e la grazia da lei spesso ammirata nella sua persona avea pure un certo che di mostruosamente dissonante. Un contrasto del pari singolare essa notava fra quella grazia di persona ed il lasciare il castello in sì lurida bruttezza, e porvi a custodia facce così ignobili. Nel mondo delle cose naturali, Rafaella non avea mai veduto tali disarmonie, e solo aveale udite accennare come opera d'inferno in racconti spaventosi.
Le si affacciava dunque continuamente il pensiero d'uccidersi, e quasi temeva che il non obbedire a quel pensiero fosse codardia. Ella ricordava quel Sansone acciecato che deriso da nemici e tratto nel Dagone s'inchinò a Dio e non all'infame idolo, e scossa l'una e l'altra colonna fra cui stava, procacciò la morte a sè ed a molte persone. Ricordava Eleazaro che non temè di farsi schiacciare dall'elefante d'Antioco per trafiggere la belva, pensando così dar gloria a Dio, colla rovina dell'empio. Ricordava quel seniore di Gerusalemme, il quale piuttosto che esser soggetto a peccatori si lacerò largamente col ferro, e salito sopra una pietra afferrò con ambe le mani le proprie viscere e le gettò sulla turba invocando il Dio dominatore della vita, perchè a lui la rendesse nel regno de' giusti. Ignara del criterio onde vogliono essere giudicati que' biblici fatti, ignara della necessità di stare guardinghi nel trarre dagli esempii straordinarii le norme della nostra condotta, Rafaella s'accendeva la fantasia, giustificando in sè l'idea di terminare la vita per fuggire da incerti e perciò più temuti pericoli. Intanto Manfredo, sollecitato dall'imperatore di recarsi al campo; era partito di Saluzzo ed avea per buona ventura, imposto a Villigiso di seguitarlo.
Questi come tutti gli scellerati, mentre cercava di nascondere agli onesti le sue iniquità, pur s'affratellava in ogni luogo con qualche scellerato suo pari. Tal era un Barone pavese, il quale avea un castello sulla riva del Ticino, entro cui commetteva e lasciava commettere dai suoi compagni ogni sorta di tirannie. In quel castello pensò Villigiso di far condurre, per maggior sicurezza, la sua prigioniera. Era già a Rafaella motivo di stupore, che passasse l'un mese dopo l'altro senza che le fosse incolto altro danno, che la cattività e la lontananza dai genitori. Ella ne traeva buon augurio. Quando un mattino il rozzo castellano Berto, zelante ed accorto esecutore di quanti delitti imponeagli il suo signore, venne ad annunciarle che facea d'uopo partire subito con lui, e con Tommasona sua moglie. Stupì Rafaella, e chiese dove fosse per esser condotta. Berto, che per aver minori impicci, amava di averla docile per via, prese a dirle che Villigiso, pentito del suo misfatto, lo incaricava di ricondurla ai genitori. Del che ella sarebbesi abbandonata al più vivo giubilo, se avesse potuto reprimere ogni sospetto d'inganno. Mostrò nondimeno di credere; e ad ogni modo non le spiacque di uscire dal castello, parendole che il fuggire per via non le sarebbe stato poi impossibile. Tommasona apparecchiò dunque in fretta le valigie; Berto con altri tre sgherri posero all'ordine i cavalli, e la comitiva fu in viaggio lo stesso giorno.
Cavalcarono quattro giorni schivando sempre i luoghi abitati; e Rafaella udiva spesso ripetersi che la distanza era grande, e che bisognava fare diversi giri; perchè la strada diretta era corsa dai ribelli Cuneesi e da malandrini. Ella dicea spesso a Tommasona: — Tuo marito non mi disse il vero: se tu lo sai, palesami, te ne scongiuro, ove si vada. — Perchè questa, ammaestrata da Berto, mostrò alfine di lasciarsi strappare il segreto, e le disse che essa era difatto ricondotta ai suoi genitori: ma che questi erano stati costretti di mutar paese, perocchè Manfredo, pentito d'aver liberato Berardo, avea voluto rimetterlo in servitù; di che egli era fuggito oltre il Ticino. Soggiungea che il Barone di Mozzatorre, commosso dalla sventura di Berardo non avea resistito al desiderio di consolarlo col restituirgli la figliuola. Poteva Rafaella credere a questo racconto? Tornava i seguenti giorni ad interrogare quando la donna, quando Berto, quando gli altri. Tutti erano d'accordo fra loro e rispondeano la medesima cosa. Ma i loro volti annunciavano tal perfidia, che la misera tradita non quietavasi, ma dissimulava.
Dopo lungo e penoso viaggio furono al bosco del Ticino; donde il castello malvagio non era lontano più d'un miglio. Rafaella che aveva mostrato di credere tutto ciò che le si dicea, e che non aveva mai dato il minimo indizio di voler fuggire, veniva custodita con poco rigorosa vigilanza, principalmente allora che il viaggio era compiuto. Non l'avrebbero lasciata indietro due passi, ma non si sgomentavano se talvolta il suo cavallo precedeva d'alcun poco. Volle la Provvidenza che in uno di questi istanti, mentre il cavallo di Rafaella, era di qualche passo innanzi, il bosco fosse assai folto. Gli sgherri spronarono tosto ed erano per raggiungerla; ma la donzella era già balzata a terra e inselvavasi rapidamente. I suoi custodi scendono di cavallo, corrono da tutte parti, cercano, chiamano, minacciano, pregano. Tutto è vano. La snella fuggitiva udendo le voci ed i passi degl'inseguenti, correva senza strepito per viottoli oscuri: e tanto si scostò, che in breve non li udì più. Il che accadde perchè gli sgherri supposero falsamente che Rafaella fossesi volta indietro per ritornare verso il Piemonte; e smarrirono così più presto le sue tracce. Ella, ignara del luogo e altro scopo non avendo che di cercare gente dabbene che l'aiutasse, movea, sempre innanzi. Uscita finalmente del bosco e traversato un campo, chiese ospizio alla prima casa che incontrò. Villeggiava in essa una famiglia popolana milanese; la quale l'accolse benignamente con tutta la pietà e la riverenza che essa agevolmente seppele ispirare col patetico racconto dei suoi tristi casi. Felice Rafaella se tosto avesse potuto informare i parenti ch'ella era sotto tetto sicuro! Ma le comunicazioni a que' tempi non erano facili, considerata specialmente la guerra che fervea. Inoltre pochi giorni dopo l'arrivo di Rafaella, Milano toccò una sconfitta dagl'imperiali; sì che le famiglie milanesi, ch'erano in contado, dovettero fuggire entro le mura della città.
Due eserciti ognora struggentisi a vicenda, e ognor rinascenti, devastavano da parecchi anni le contrade lombarde. L'uno era composto di Milanesi, e d'oltre la metà degli altri abitanti di Lombardia, facendone parte popolani e nobili, liberi e servi, giovani e vecchi, moltitudine immensa. L'esercito, unito e ben raccolto nella prosperità, era facile a dissiparsi, ogni volta che la vittoria favoriva il nimico; ma facilmente si rannodava anche dopo che pareva pienamente disperso ed annientato. Il disgregarsi dell'esercito nell'avversa fortuna proveniva dalla premura che ciascuna schiera aveva di scampare la propria vita, senza badar molto in tali frangenti alla causa comune.
L'esercito imperiale era pure formidabile. L'Imperatore ed i Conti palatini, Ottone e Corrado, davano l'esempio agli altri principi tedeschi, traendo dalla Svevia quanti più armati poteano. Il Langravio cognato di Barbarossa, Arrigo detto il Leone, duca di Baviera, Arrigo d'Austria, Guelfo il giovane figlio di Guelfo duca di Toscana, Vladislao di Boemia, l'Arcivescovo di Bologna, Rinaldo arcicancelliere, l'Arcivescovo di Magonza Cristiano, e altri valentissimi cavalieri gareggiavano nel numero de' combattenti che traeano da' loro feudi. Onore ed avidità di preda teneali uniti quando fortuna loro sorridea; ma anch'essi